Il pendolo e la bilancia

claudio vercelliMai farsi prendere dalla tentazione, in sé pericolosissima, della reductio ad Hitlerum (come il filosofo Leo Strauss definiva le strategie comunicative che diabolizzavano gli interlocutori e gli avversari squalificandoli attraverso il paragone ad Hitler). Così come il ripetere pedissequamente che il fascismo ritorna, o giù di lì, nulla funge se non ad incrementare il carisma di chi già si propone come il “risolutore” dei problemi senza risposta, assumendo le vesti, o comunque la postura, del capo insindacabile ovvero del leader maximo. Dopo di che, ci sono anche elementi fascistoidi nella cultura politica (quindi nel concreto operare) di chi si è candidato a governare l’Italia per i tempi a venire. Anche, sia ben chiaro. Poco importa, in un discorso di tal genere, identificare nomi o sigle. Non è questo il luogo. La questione, infatti, non è ascrivibile ad una precisa collocazione ideologica che deriva dal passato e neanche alla natura dell’insediamento elettorale, altrimento non solo molto diffuso ma anche sufficientemente trasversale; l’una e l’altro, se dovessero essere rigidamente comparati con il fascismo classico, come anche al successivo nocciolo neofascista, rivelerebbero infatti caratteri per più aspetti molto differenti, ovvero significative discontinuità. Se non altro poiché un conto è un regime di cento anni fa, un altro un partito politico odierno; inoltre, discorso a sé è quello – nel passato come oggi – su gruppi ed organizzazioni di nicchia (che vivono ciò come precondizione per mantenere la propria identità), ed altro è rifarsi all’ampio seguito, tra la popolazione, raccolto dagli attuali “sovranisti”. Tempo e numeri fanno differenze, anche se non necessariamente assolute. Cosa c’è, allora, di un passato che non passa? C’è senz’altro l’avversione per la democrazia. Testimoniata da gesti e sedimentata da un linguaggio che volutamente tradisce la crescente intolleranza verso gli istituti del pluralismo politico. E non solo di quello. Non si tratta di un problema esclusivamente italiano ma nel nostro Paese sta assumendo una veste laboratoriale, anticipando tendenze che potrebbero poi riprodursi anche in altre società. In questo, se così dovesse essere, ancora una volta ci riveleremmo antesignani di indirizzi destinati a fare scuola. La vera analogia con il passato sta quindi nella stanchezza della democrazia, liberale e sociale. È questo il terreno sul quale si inseriscono spinte volte alla disgregazione politicamente guidata del complesso tessuto istituzionale, nel nome delle “semplificazioni”, della necessità di procedere oltre, di dare delle risposte senza stare a guardare in faccia chicchessia e quant’altro. Tutto il resto viene altrimenti vissuto come un orpello di ciò che è stato e, quindi, un impedimento a garantire serenità e sicurezza a ceti in crisi di collocazione sociale, dallo status declinante. Si ricordi che ogni forma di autoritarismo in età contemporanea ha cercato il consenso nella collettività richiamandosi al suo ruolo di “pacificatore”, di azzeratore delle ansie diffuse attraverso l’identificazione di nemici tanto immaginari quanto potenti e, quindi, pericolosi. Il successo leghista, qualora dovesse tradursi in un futuro capitale elettorale in grado di garantire a Matteo Salvini la possibilità di guidare i governi a venire, peraltro non si sarebbe potuto verificare senza il declino grillino. L’una cosa non è solo antecedente temporale ma occorrenza logica dell’altra. Il lascito dei pentastellati, a questo punto, richia di essere anche quello di sdoganatori di atteggiamenti dichiaratamenti anti-istituzionali. Non solo per vocazione propria ma per la precisa scelta di coniugare alla rappresentanza del risentimento l’incapacità programmatica di tradurla in progetto politico durevole. Il grillismo, nella sua versione parlamentare, si riduce a questi due poli: istigazione alla reazione collettiva di natura umorale e pulsionale; impossibilità e indisponibilità nel diventare qualcosa di più di un insieme fortuito e fortunato di eletti alle Camere. Va detto che è nella natura di questo fenomeno sociopolitico il consegnarsi ad un tale bipolarismo, che verrà sciolto solo passando lo scettro ai futuri beneficiari. Matteo Salvini, per parte sua, ha senz’altro dimostrato abilità nel recuperare una impresa politica, la Lega, oramai sull’orlo del fallimento. Ma senza la distopia grillina, non si sarebbe schiodato di molto dal vecchio (e vincolante), “padanesimo”, dovendosi limitare e gestirne la decrescente rendita di posizione. Il grillismo (le piazze) prima e il pentastellismo (le Camere e il governo) poi, ovviamente due facce della stessa medaglia, non sono solo un fenomeno politico ma contraddistinguono durevolmente un evento antropologico: il pieno ritorno, ossia rilegittimato dalla voce popolare, del rifiuto della razionalità, al quale si accompagna il bisogno di rifugiarsi in un universo di ancestrali semplificazioni, al limite della superstizione, del preconcetto, soprattutto del pregiudizio. Grillo e il MoVimento Cinque Stelle, rifacendosi grossolanamente ad una “naturalità” che sarebbe stata corrotta dalla modernità utilitarista, quest’ultima promossa dalle élite dei “poteri forti”, hanno dato spessore e nobiltà politica a questo non inedito sentire. Segnatamente, una tale dicotomia (natura buona contro materialismo cattivo) è fondante del pensiero della destra radicale, anche se si traveste – a volte – sotto le mentite spoglie della frugalità, dell’autogestione, del comunitarismo e così via. Anche per un tale motivo, in sé molto profondo, la vulgata intercettata da Grillo e dai suoi non si esaurirà con l’eventuale ridimensionamento della loro rappresentanza parlamentare. La trasformazione culturale e politica che hanno alimentato in questi ultimi ultimi anni, infatti, è la premessa affinché sopravvenga qualcuno (che sia Matteo Salvini oppure altri) che si presenti come il salvatore, ossia colui che, recuperando anche motivi e suggestioni dall’arsenale pentastellato, si pone come l’individuo che finalmente “farà ordine” nella confusione collettiva. Storicamente, tutti i “salvatori della Patria”, prima di potere adempiere al compito che impone loro il riconoscergli “pieni poteri”, hanno dovuto farsi precedere da un periodo di entropia istituzionale, politica ed anche socioeconomica. Di cui hanno goduto appieno, capitalizzandone gli effetti. La vera intelligenza del leader della Lega è quindi quella di piegare la condizione confusionale, e a tratti lisergica, che il nostro Paese sta vivendo su indirizzi, umori e poi atteggiamenti che paiono ispirati ad un’apparente calcolabilità (quanto la “gente” ne ricava in termini di presunti benefici, in buona sostanza; comunque, in aspettativa di una promessa di benessere a venire), quand’anche essa sia basata sulla legittimazione dei risentimenti e sull’accettazione delle condotte più sindacabili. La divisività, in altre parole, paga elettoralmente. Ma l’esposizione delle peculiarità del ciclo che stiamo vivendo non sarebbe completa se non cogliesse un’altra crisi, quest’ultima innescatasi già da molto tempo, ossia quella della sinistra liberale e tiepidamente riformista. Alla quale oggi si associa l’affaticamento del grande corpaccione dei partiti popolari, perlopiù di centro. Si tratta di una questione europea, aprendo il varco alle rappresentanze meno moderate, e maggiormente caratterizzate sul piano identitario (“terra e popolo”), così come si presentano oggi i cosiddetti “populisti”, i partiti sovranisti e così via. È un tema a sé, che necessiterebbe di essere svolto con rigore e corredo di riferimenti. L’orizzonte, nel qual caso, è continentale, coincidendo con il tramonto di ciò che resta delle socialdemocrazie e delle sinistre in età populista, che sono state chiamate ad amministrare il mutamento sociale ed economico, essenzialmente rendendolo accetto ai loro elettori. La contrazione dei sistemi di welfare e il ridimensionamento delle funzioni redistributive degli Stati stanno risultando fatali per un’area politica che sembra non avere più nulla da dire, avendo semmai imparato a non ascoltare nulla e nessuno. Se il “reale”, nelle sue iniquità e asimmetrie, è l’unica dimensione praticabile, allora non si vede per quale motivo gli elettori dovrebbero continuare a dare il loro assenso a chi si propone in termini di sua mera “governance”. Sta di fatto che la crisi istituzionale alla quale l’Italia, e non solo, si sta ora esponendo è essenzialmente la crisi di una parte politica: ovvero, ne raccoglie e proietta lo stato di grande difficoltà nell’intercettare il consenso, laddove questa parte politica si è fatta garante, in questi ultimi tre decenni, degli equilibri istituzionali che potrebbero, da adesso in avanti, essere invece messi in discussione. Poste tali premesse, chi aspira ad una durevole premiership “rivoluzionaria”, dovrà agire soprattutto in questo senso, ossia trasformare in primis l’intelaiatura costituzionale, ricorrendo a forzature ogni volta che ciò necessitasse per raggiungere i suoi obiettivi. Altrimenti sarà costretto ad attestarsi sulla fragile linea delle promesse che non possono essere mantenute, delle compatibilità con le politiche dell’Unione, dell’estenuante mediazione con il reticolo di corporazioni e interessi precostituiti. Chiedere “pieni poteri”, per “salvare l’Italia”, nel nome della rivoluzione del “buonsenso” (e dell’adorazione mariana), può essere una una tattica di corto respiro, destinata a rivelare la sua inconsistenza nel volgere di poco tempo; oppure, può diventare la cornice per garantirsi uno spazio di rilevante condizionamento, facendo il primo passo verso lo sgretolamento dell’Unione europea, il vero obiettivo al quale una leadership nazionalista dovrebbe mirare. Nella logica, sia ben chiaro, di un mutamento del quadro geopolitico, per il quale l’Eurasia a venire potrebbe essere qualcosa di più del prodotto della visionarietà di qualche gruppo radicale di destra, così come è stato fino a non molto tempo fa. Per cogliere certe dinamiche, allora, bisogna guardare ad Est. Il destino di un’Europa frammentata, e di un’Italia che si allontana dall’atlantismo al quale è altrimenti rimasta legata per circa settant’anni, si giocherebbe anche e soprattutto in quello spazio, dove lo sgretolamento della politica continentale diverrebbe la premessa per nuovi equilibri a venire proiettati verso l’Oriente.

Claudio Vercelli

(18 agosto 2019)