La fotografa che scelse di fare la tata
Vivian Maier, The Self-Portrait and its Double, in corso al Magazzino delle Idee di Trieste, è una mostra da non perdere. L’esposizione fotografica, curata da Anne Morin, in 70 autoritratti – di cui 59 in bianco e nero e 11 a colori – aiuta a comprendere tutta la complessità di una grande artista che rischiava di restare sconosciuta al grande pubblico. Nata a New York, figlia di madre francese, Maria Jaussaud, e padre austriaco, Charles Maier, Vivian scelse per il suo amore per i bambini e per la vita all’aperto di fare la tata, utilizzando la fotografia come espressione di sé e non come una professione. I negativi del suo lavoro sono stati scoperti di recente dal regista John Maloof, che per caso li acquistò in una casa d’aste. A presentarci i temi dei suoi scatti è il noto critico d’arte Giulio Montenero, tra gli ospiti dell’ultima edizione di Redazione Aperta.
I 70 autoritratti esposti a Trieste fanno parte di un fondo di 150 mila negativi, ricuperato in modo fiabesco. Un ricercatore americano casualmente acquistò per poco all’asta degli scatoloni che erano stati pignorati a una vecchia bambinaia in miseria. Vivian Maier, impossibilitata a pagare l’affitto della propria abitazione, quindi, soccorsa per carità da una delle famiglie alle quali aveva prestato servizio, morì a 83 anni d’età nel 2009. Aperti gli scatoloni, presto ci si accorse che ai celebrati autori, che costituiscono la costellazione mondiale della grande fotografia di eccelsa qualità artistica, andava aggiunto il nome della finora sconosciuta bambinaia.
Come sempre, la singolarità del caso attrae la curiosità di chi guarda le foto e tenta di rendersi ragione delle straordinarie circostanze. Non vorrei che ciò accada con voi che mi leggete. L’arte ha una propria perfezione interna e nasce tale come nacque Minerva dalla testa di Giove. Vi cito la rappresentazione di una mandria di bisonti che si scontrano, dipinta circa 18 mila anni fa sulla parete di una caverna ad Altamira, in Spagna: si dice che siano la Cappella Sistina della preistoria.
Quindi vorrei che voi apprezziate le fotografie di Vivian Maier per la loro qualità, come se fossero opera di un autore famoso e fortunato nella sua vita. Non mi è facile indurvi a ciò, perché le foto sono prive di ogni pretesto che aiuti la valutazione. I soggetti trattati sono desolantemente banali. Lo stile non ha nulla di originale, né quanto all’inquadratura, né quanto alle tecniche di assunzione e di elaborazione. Anzi, Vivian, nella maggior parte dei casi, non sviluppava i rullini, le bastava aver scattato. Voleva accertare che lei esisteva e che esistevano le persone da lei ritratte. Un discorso, dunque, soltanto esistenziale.
Ho cercato aiuto riprendendo in mano i testi di Enzo Paci (1911-1976), filosofo esistenzialista che, a differenza dei maestri francesi, dischiudeva dalle nuove forme d’arte prospettive positive dell’umana coscienza. Ebbe familiarità con Luciano Anceschi, il difensore degli “ermetici”, Montale in testa, e avversario di Benedetto Croce che li detestava e rifiutava quelle regole interne a un determinato indirizzo che si dicono poetica e intrecciano legami fra poesia e letteratura, fondamento della critica di Paci e di Anceschi. Seconda stranezza delle fotografie di Vivian Maier. Pur create nell’età dominata dalla dottrina purovisibilista, non sono accostabili al pittoricismo e al formalismo, anzi sono portatrici di implicazione letterarie.
Si dice di Vivian Maier che è una fotografa lirica. Ma l’opera singola si collega alle molteplici iniziative umane e si inserisce nel tessuto vivo della cultura. Anzi all’inizio la finalità estetica si mescola ad altri scopi in un intreccio di propositi.
Torniamo ad Altamira. È da presumere che gli intenti della rappresentazione della mandria di bisonti fossero molti e fra di loro confusi: documentazione, contemplazione, propiziazione, scaramanzia, gratificazione e chissà quanti altri ancora sconosciuti.
Un poco alla volta, nel trascorrere dei secoli, l’intento estetico si va isolando dagli altri. Si ritiene che il culmine della purezza estetica sia il colore che Jackson Pollock lancia sulla parete a espressione di sé, e siamo alla metà del secolo scorso.
In codesta processualità, la fotografia è il momento in cui l’immagine viene isolata dall’ulteriore svolgimento temporale. La fotografia ferma il tempo, consente di riproporre, quando e dove si vuole, un momento del passato. Perciò si dice che la fotografia è sorella della morte.
La tavola imbandita, che Niepce ritrasse nella prima fotografia della storia, sembra fugga lontano da noi, in una profondità tragica che diciamo metafisica. Eppure anche la fotografia può essere contaminata dalla commercializzazione, può diventare merce in sé stessa e strumento di falsificante propaganda.
Ma l’arte ha il singolare privilegio di correggere le proprie distorsioni. E qui interviene Vivian Maier con i suoi 150 mila scatti mostrati a nessuno, neanche a se stessa. Le bastava sapere che può fermare l’attimo in cui la singolarità delle circostanze l’ha messa in contatto. Per salvarsi, non usa il proprio prodotto. È significativo che adoperò la Rolleiflex, complemento del suo corpo.
Di contro, un grande fotografo, qual fu Cartier Bresson, impiega la Leica, rapacità del prolungamento del suo occhio, ruba un’immagine, anima altrui, e la mette in circolazione con la stampa. Invece Vivian Maier usa la Rolleiflex, la preme contro il suo ventre, immaginaria continuità fra la propria visceralità e la visceralità altrui. Vivian affonda lo sguardo nel pozzetto, come se entrasse nel proprio inconscio, mentre il secondo obiettivo è aperto hassidicamente sulla luce divina delle cose. Ogni foto riuscita, secondo Walter Benjamin, è illuminata dal riverbero della prodigiosa scintilla che rischiarò la prima foto e rese bella e intangibile la tavola imbandita dei nostri avi.
Vivian disse che aveva scelto l’attività di bambinaia poiché le consentiva di stare all’aperto, di godere del sole e del verde.
Se le capita di stare fra la gente, si accorge che le persone ripetono gli stessi gesti, le stesse parole. La sorte le ha offerto di osservare questo effetto di ripetizione figurato metaforicamente in un gioco di specchi. Due signore chiacchierano guardando una vetrina che riflette duplicate le loro figure, mentre lei fotografa sulla vetrina la propria immagine sola e isolata. Ma non c’è presunzione in Vivian. Infatti quando riesamina se stessa nella solitudine del proprio bagno, riscopre frammentata e impersonale la propria figura, alternativamente di schiena e di fronte, mentre rimpicciolisce in una serie infinita fra due specchi posti frontalmente che si rimandano l‘inconsistente apparenza.
La salvezza è nel lavoro, separato dall’arte gratuita e segreta. Vivian scopre un equivalente del proprio lavoro di bambinaia in un operaio che trasporta uno specchio per una casa in costruzione. Ancora una volta è il caso che crea la metafora più appropriata.
Vivian fotografa se stessa con la sua Rolleiflex al petto puntata sullo specchio, portato verso il posto in cui deve andare.
Giulio Montenero
(21 agosto 2019)