Ticketless – Via dei Mille, 4
In un fresco pomeriggio ferragostano, quando Torino diventa incantevole, mi sono soffermato sotto la lapide di via dei Mille 4.
La casa di Bruno Vasari, B.V., il destinatario della poesia di Levi forse
più nota (Ad ora incerta), da circa un anno porta una lapide. Per un lungo periodo questa casa ha custodito la memoria della deportazione, nel silenzio generale che la circondava. A Torino, e non solo a Torino, il deportato fino a tutti gli anni Settanta era guardato con lo sgomento con cui nella poesia di Coleridge si guarda il Vecchio Marinaio. Nella grande e accogliente casa di questo naufrago triestino, compagno di scuola di Stuparich, poeta, autore di un mémoir che precede di un anno Se questo è un uomo, convenivano le poche persone che avevano a cuore il ricordo della deportazione (senza aggettivi: erano tempi in cui non si facevano le sottigliezze di oggi fra deportati politici, razziali e internati militari). L’idea di una Giornata della Memoria non se la sognava nemmeno Furio Colombo, che pure era amico stretto di Vasari avendo entrambi lavorato in Rai.
Non si passa sotto una casa carica di dolci ricordi, senza prendere un impegno per domani. Cercando di non lasciarmi sopraffare dalla nostalgia, guardando in su, verso il quarto piano del palazzo, mi è venuta in mente una cosa. La memoria di B. V. oggi ci può servire per un’altra battaglia della memoria, nuova, non meno urgente dell’altra. Salvare Primo Levi da se stesso, dal pericolo della retorica che lo avvolge, dalla lettura agiografica dei suoi libri, un pericolo che avverto da tempo. Vorrei non essere il solo ad avvertire il problema. Come tutti gli essere umani Levi qualche volta può aver detto delle cose sbagliate o discutibili. Come per Omero, si potrà pur dire, senza pericolo di essere scomunicati, per Levi, che ogni tanto dormitat? C’è in giro il rischio dell’ipse dixit.
La casa di B. V. questo ci lascia in eredità. Quando uscirono “I sommersi e i salvati”, Vasari scrisse a Levi una lettera, che ho avuto il privilegio di leggere in anteprima. Poi riversò i suoi pensieri in una concisa ma acuta recensione per “Lettera ai compagni”, che oggi dovremmo correre a rileggere. Non aveva tollerato il principio da Levi sostenuto secondo cui a sopravvivere ad Auschwitz sarebbero stati i peggiori. Sia chiaro, B.V. non è stato il solo ad aver polemizzato con Levi. Secondo me non avevano tutti i torti nemmeno Jean Améry sulla questione del rapporto con i tedeschi, Gustaw Herling nella questione delle vittime dei Gulag e, perché no, una porzione di ragione forse l’avrà pure avuta Giorgio Manganelli sulla faccenda dello “scrivere oscuro”. Vorrei che un domani gli interpreti di Levi provassero più benevolenza verso gli interlocutori critici. Sarebbe un regalo prezioso per chi ha a cuore la salvaguardia di un classico della letteratura.
Alberto Cavaglion
(21 agosto 2019)