Memoria, tra emozione
e conoscenza

Giorgio BerrutoScrive Massimo Giuliani a proposito del Giorno della Memoria che “le strategie della memoria messe in atto negli ultimi decenni in Europa non stanno funzionando” innanzitutto perché “hanno investito molto sulla ‘dimensione conoscitiva’ degli eventi e troppo poco sulla ‘dimensione emotiva’ o affettiva”. Questa frase, che ho letto nel recente “Le terze tavole. La Shoah alla luce del Sinai” (EDB), mi ha colpito perché per anni ho pensato esattamente il contrario, e cioè che la ricerca dell’emozione fosse il motivo numero uno dei limiti della ricorrenza che cade ogni 27 gennaio. In altre parole, ritenevo che all’istituzione di una data in ricordo delle vittime della Shoah non giovasse la tendenza diffusa a comunicare qualcosa come un’emozione, oggetto fluttuante che facilmente perde di vista il riferimento a un evento storico preciso e uguale per tutti; pensavo perciò che sarebbe stato preferibile spiegare in modo più dettagliato e meno coinvolgente che cosa è stato e come si è svolto l’assassinio sistematico di due terzi degli ebrei europei: più storia, insomma, e meno memoria.
La lettura del ricco testo di Giuliani non mi ha fatto cambiare idea a 180 gradi, e tuttavia ha scosso e spostato le mie convinzioni. Focalizzare la comunicazione pubblica a proposito della Shoah sulla trasmissione di conoscenze, nota Giuliani, non è servito a mettere al riparo in questi anni né dalla diffusione di intolleranza, razzismo, antisemitismo e xenofobia né dal dilagare di una mentalità e un linguaggio fascisti o comunque del fascismo eredi ed emulatori. L’idea di fondo qui è che la politica si debba occupare (anche) dell’educazione del cittadino, cosa discutibile e che, infatti, viene tutt’oggi discussa. È però indubbio che l’istituzione della Giornata della memoria sia stata una decisione politica: non è forse naturale allora che anche le conseguenze che persegue siano politiche, cioè – nel senso suddetto – eticoeducative? L’obiettivo fondamentale al quale avvicinarsi con coerenza, dunque, non dovrebbe essere l’apprendimento di un bagaglio di conoscenze storiche, ma della capacità di immedesimarsi, emozionarsi, sentirsi “come se”. Questo non significa che una buona capacità di orientamento storico non sia indispensabile: lo è, ma in qualità di strumento dell’empatia, autentico fine della memoria. Come scrive lo stesso Giuliani, una maggiore sobrietà, unita a una più ricca contestualizzazione storica, rimangono necessarie “per evitare strumentalizzazioni indesiderate o involontari stimoli all’emulazione perversa dell’intolleranza e del pregiudizio”. Necessarie, ma non sufficienti se manca la capacità di comprensione emotiva.

Giorgio Berruto

(22 agosto 2019)