Simboli religiosi
Discuto con un amico credente e praticante cattolico sull’uso politico dei simboli religiosi. Comprensibilmente, lui non è così convinto che il simbolo religioso debba rimanere fuori dal dibattito politico, perché per lui una croce, un rosario, un richiamo alla Madonna evocano i valori in cui crede e che è convinto debbano ispirare l’azione di un uomo politico per bene. Mi rendo conto che, con spiriti devoti, non si è mai convincenti quando si afferma che, per buoni motivi, non si dovrebbero mescolare il sacro e il profano nella vita pubblica, e non soltanto perché la costituzione proclama la laicità dello stato. Benché già questo dovrebbe essere riconosciuto come unico argomento dirimente e definitivo.
È difficile trasmettere l’idea che l’uso privato di un simbolo religioso è un diritto, mentre l’uso pubblico istituzionale di quel simbolo è un sopruso, che prevarica la libertà di chi non crede o non condivide quella fede. Perché lo stato è quell’istituzione che unisce i suoi cittadini ispirandoli a valori comuni, non li divide in base al credo che professano, o che hanno liberamente deciso di non professare.
È vero, infatti, che un rosario brandito da un ministro, per cittadini di altre fedi o non credenti, non rappresenta alcun valore e non comunica nulla, se non la distanza delle sue idee e dei suoi valori dai loro. Anziché unire, quel simbolo separa ed esclude, isola ed emargina. È un segno che dichiara la diversità – in Parlamento come a scuola o in tribunale. E ti segna a dito, come colui che ‘non è parte’, non è incluso fra coloro che lo condividono. Il segno religioso si rivolge solo a coloro che accettano la sacralità del suo valore. E chi quel simbolo lo riconosce sta dalla parte del bene e del vero, chi non lo riconosce è nell’errore e, soprattutto, sta dalla parte del male. Perché se la politica persegue (dovrebbe perseguire) il bene della collettività attivando modalità utili di convivenza sociale, la religione lega l’uomo al sacro per indirizzare il suo comportamento al bene e allontanarlo dal male. La prima dovrebbe preoccuparsi in primis di trattare tutti come se fossero uguali, dando regole a cui tutti indifferentemente debbano attenersi per creare una società in cui tutti si rispettino; la seconda, crea invece l’unità all’interno di una artificiosa diversità, per legare assieme lo spirito dei fedeli, più che per risolvere le necessità della loro vita sociale e politica quotidiana. Insomma, la religione crea unità nella diversità e nella separazione, che può essere cosa buona e del tutto lecita, ma non si attaglia a favorire il sentire dell’unità nazionale.
Solo per fare un esempio, il ministro Salvini, ministro dell’Interno, seduto in Parlamento sullo scranno del vice-Presidente del Consiglio dei Ministri, che si porta ostentatamente alle labbra il rosario per baciarlo con devozione mi sta comunicando che lui, nello svolgimento del suo ruolo istituzionale, non mi rappresenta, né si preoccupa di farlo. Non mi sta comunicando che anch’io sono un cittadino uguale agli altri. Non gli importa nulla di me e di tutti coloro che come me non si riconoscono nel simbolo che tiene fra le mani. Anzi, è ben lieto di farmi sentire la differenza, la mia diversità. Sceglie consapevolmente di dichiararmi, in questo modo, diverso. Proprio in quel suo isolarmi, il ministro Salvini mi sta dicendo spavaldamente che, nel suo ruolo di uomo di governo, non intende rappresentarmi.
Non è probabile che la stessa fede ci guadagni dall’essere così strumentalizzata a piacere per un fine politico definito.
Potrebbe persino accadere che un politico si servisse di un simbolo religioso per coprire azioni sbagliate, o a legittimazione di azioni criminali o semplicemente disumane. Ne andrebbe della stessa immagine di quella fede. E ci si chiederebbe allora come conciliare l’uso del simbolo con i valori della fede che mostra di rappresentare. Accetterebbe quella fede di ricevere il suo significato (strumentale) dalle azioni di quel politico, piuttosto che dalle sue stesse gerarchie e dai suoi ministri di culto? Un uso demagogico dei simboli religiosi svuota una fede dei suoi valori e la rende pura forma, pura mostra. Uno show ad usum Delphini. Nessuna fede può accettare di essere trattata in questo modo.
Il simbolo è sfruttato demagogicamente quando intenda rivolgersi a un settore limitato di fedeli per influenzarli e, al tempo stesso, per dichiarare l’adesione a valori che non sono quelli laici della politica che dovrebbe gestire la cosa pubblica. Valori validi all’interno di una chiesa, non in un parlamento o in una scuola o in un’aula di tribunale, perché lo stato laico dovrebbe affermare valori comuni, non valori divisivi. E lo stato non ha bisogno della religione per affermare il valore dell’etica.
Rimane poi un ultimo, innocente interrogativo: se veramente i fedeli, per identificarsi con una linea politica, si facciano influenzare e guidare dall’ostentazione di un simbolo, affidandosi alla pretesa verità di un’apparenza piuttosto che alla verifica, sul campo, dei fatti, dei comportamenti e delle azioni di un uomo politico.
Dario Calimani, Università di Venezia