Saul che suonava le percussioni
con i cucchiai
La scomparsa dal 1933 al 1953 di generazioni di compositori, direttori d’orchestra, solisti e virtuosi, jazzisti e uomini di spettacolo è un evento talmente epocale da non consentirci di stralciare tale fenomenologia musicale dal contesto storico e geopolitico nel quale esso è maturato; nazionalsocialismo e stalinismo hanno strappato alla posterità una intelligentsia artistico–musicale difficile da specificare e quantificare, l’unica soluzione possibile è il graduale accesso alla loro produzione musicale, l’esecuzione e pubblicazione e delle loro opere con adeguato corredo scientifico e musicologico, lo studio e insegnamento della letteratura musicale concentrazionaria.
Ogni tentativo di reinnestare questa musica nel tessuto musicale contemporaneo assomiglia a un assurdo storico, tuttavia è un’operazione improcrastinabile; nel peggiore dei casi consegnerà in eredità al genere umano un enorme patrimonio storico e artistico, nel migliore dei casi fornirà impensabili vie del linguaggio musicale e combinazioni strutturali mai perlustrate che a distanza di 70 anni avrebbero ancora tanto da insegnare al musicista e compositore contemporaneo.
C’è una componente etica imprescindibile dagli aspetti musicologici e storiografici della ricerca musicale concentrazionaria ossia il dovere di riparare alle sofferenze di qualsiasi natura subite dalle generazioni di musicisti autori di questa musica.
Bisogna scovare ogni minuscola traccia tra carte e spartiti rimasti in ogni scaffale per riportare alla luce i segni identificativi di questa letteratura, perlustrare tra le pieghe della memoria dei sopravvissuti a – con l’urgenza dettata dalla loro età avanzata – per recuperare le musiche ancora depositate nella stiva dei loro ricordi; perderne una sola costituirebbe un danno irreversibile.
Nell’elenco dei musicisti che hanno creato musica in cattività e deportazione vanno inseriti i numerosi Anonimi che hanno lasciato fogli pieni di note o testi parodiati su canzoni popolari del Paese di provenienza o celati in lavori collettivi plasmati in camerate e Block; musicisti che non hanno potuto o voluto lasciare la propria firma e che, a prescindere dalla preparazione musicale individuale, hanno contribuito ad accrescere questo immane patrimonio dell’ingegno umano.
Scriveva la scrittrice ebrea triestina sopravvissuta Ida Marcheria: “Ogni notte io torno a Birkenau”, ciò è drammaticamente vero e la sfida di chi raccoglie musica laddove c’era la morte ha un primo, immediato, umanissimo traguardo: provare a lenire il dolore di un insopportabile viaggio notturno a Birkenau con quel suono ancestrale dell’Amen (l’Om delle tradizioni orientali) e quella freschezza di acqua sorgiva che soltanto la musica riesce a rimettere in circolo nel palato e nei sensi dell’uomo.
Un giorno qualcuno chiese al musicista ebreo americano di origine polacca Saul Dreier (nella foto a sinistra, con Reuwen “Ruby” Sosnowicz), fondatore della Holocaust Survivor Band che a Plaszow e Mauthausen suonava le percussioni con i cucchiai: “Saul, come hai fatto a sopravvivere a quell’inferno?” e Saul rispose senza indugio: “Non lo so”.
Appunto, “Non lo so” è la risposta esatta e, a pensarci bene, è una risposta molto ottimista.
Per chi intende guarire dal male della Storia con la medicina della Musica, è un buon inizio.
Francesco Lotoro
(28 agosto 2019)