Crisi di sistema

baldacciQuella che stiamo vivendo non è una semplice crisi politica, che prima o poi troverà una soluzione. È una crisi di sistema: crisi del sistema politico, perché non può funzionare un sistema nel quale gli schieramenti contrapposti si accusano reciprocamente di essere un pericolo per la tenuta della democrazia; perché in un sistema parlamentare puro l’esistenza di tre poli politici impedisce che si realizzi una fisiologica alternanza nella direzione del Governo, condizione indispensabile per il corretto funzionamento del sistema, ed obbliga ad alleanze puramente strumentali e quindi necessariamente fragili; perché una democrazia non può funzionare senza che esistano partiti forti nei quali avviene la formazione di una classe dirigente capace di gestire la cosa pubblica, e oggi i partiti sono tutto fuori che il luogo di formazione di una classe dirigente.
Ma è anche una crisi che investe l’intera società. Senza entrare nello scivoloso campo della crisi dei valori, che pure esiste ed è ampiamente avvertita, la crisi più evidente è quella dello Stato: lo Stato come insieme di istituzioni che permettano ai cittadini di riconoscersi in una convivenza civile regolata da norme comunemente accettate. Questa è forse la crisi più profonda, perché si è dimenticato che la costruzione dello Stato (e in particolare di uno Stato democratico) è stata la conquista più difficile da parte dell’umanità (o di una parte di essa), superando l’organizzazione per clan e tribù, che non solo continua a caratterizzare molte popolazioni, ma che tende a riformarsi anche nelle società più avanzate quando lo Stato non assolve più ai propri compiti.
Qualunque sia, dunque, l’esito della crisi politica in atto il sistema parlamentare puro non è più in grado di esprimere maggioranze di governo stabili, capaci di dare al Paese un indirizzo coerente e duraturo, capace di affrontare i complessi problemi di una società avanzata. E’ una crisi di sistema che coinvolge non solo l’Italia ma buona parte dei Paesi europei: ricordiamo quello che accadde non molto tempo fa in Belgio, ma anche quello che sta avvenendo in Spagna; la stessa Gran Bretagna, culla del sistema parlamentare, è in crisi per il venir meno del tradizionale bipartitismo; e lo stesso fenomeno si sta profilando in Germania. In realtà il sistema parlamentare puro riesce a reggere solo in presenza di due partiti (o di due coalizioni stabili) in grado di garantire un’alternanza di governo, nell’ambito di una accettazione condivisa delle regole e dei valori che sono alla base di un sistema democratico. La frammentazione dei partiti e il venir meno della condivisione dei valori di base di una società democratica hanno messo in crisi un sistema che sempre più nel tempo ha dimostrato di non saper più funzionare come in passato.
L’Italia era stata uno dei primi Paesi a rendersi conto della crisi del sistema parlamentare puro, già negli anni ’80 del secolo scorso, ma la classe politica non si è dimostrata in grado di tradurre in effettive riforme questa consapevolezza. Dopo la Commissione Bozzi, che inaugurò i tentativi di riforma costituzionale, si sono succeduti molti altri tentativi di riforma ma tutti con esito negativo. Nemmeno la crisi del 1992-1993 è riuscita a smuovere la classe politica dal suo conservatorismo istituzionale e parlare di Seconda Repubblica significa solo usare un’espressione giornalistica, perché niente è mutato rispetto all’impianto costituzionale costruito nel 1946/1947.
Alla base di quell’impianto c’è la convinzione che sistema parlamentare e sistema democratico siano sinonimi e che la migliore garanzia per la conservazione del sistema democratico sia quella di un governo debole. Si tratta, prima di tutto, di un errore di cultura politica, che nasce dall’esperienza del fascismo e dal timore che una maggiore stabilità dell’esecutivo possa portare con sé il rischio di avventure autoritarie. In realtà si dimentica che proprio la debolezza dell’esecutivo favorì l’ascesa al potere di Mussolini e la successiva nascita di un sistema autoritario.
Si dimentica anche che molti Paesi – di sicuro impianto democratico – sono retti da sistemi basati non sull’esclusiva centralità del Parlamento ma su un’effettiva divisione dei poteri, che prevede che l’esecutivo abbia una sua autonomia rispetto al legislativo, pur derivando entrambi la loro legittimità dalla volontà popolare. Anche lasciando da parte gli Stati Uniti, che hanno avuto una storia costituzionale molto particolare nella quale il fatto di essere nati come federazione di Stati gioca un ruolo essenziale, l’esempio della Francia, tante volte ripetuto, sta lì a dimostrare che si può superare il sistema parlamentare puro senza per questo rischiare di mettere in discussione il sistema democratico. In Francia fu proprio il sistema parlamentare puro della IV Repubblica che rischiò di trascinare il Paese verso avventure autoritarie quando attraversò la gravissima crisi indotta dalla guerra d’Algeria, mentre il sistema semipresidenziale adottato nel 1958 ha permesso, da allora, di avere governi stabili, senza che venisse mai messo in discussione il sistema democratico, e anzi favorendo l’alternanza tra destra e sinistra.
Questo non significa che la crisi di sistema italiano debba essere necessariamente superata con l’adozione del sistema semipresidenziale. Nel corso dei tanti tentativi di riforma costituzionale sono stati proposti molti altri sistemi, basati tutti, però, sul principio del rafforzamento del potere esecutivo, in modo da garantire un indirizzo politico stabile. Ogni sistema politico deve basarsi anche sulle tradizioni consolidate di un determinato Paese: ad esempio, il sistema del premierato, cioè l’elezione diretta del capo del Governo, che resta in carica per l’intera legislatura, potrebbe rispondere meglio, in Italia, ai timori di chi teme un’involuzione autoritaria, perché resterebbe il ruolo di garanzia del rispetto delle regole democratiche svolto dal Presidente della Repubblica, eletto, come oggi, dal Parlamento, oltre a quello assicurato dalla Corte Costituzionale.
Sarebbe un segnale di grande importanza se tutte le forze politiche presenti in Parlamento decidessero di fare di quella in corso (o, altrimenti, della prossima) una legislatura costituente, nella quale prendere finalmente atto dell’impossibilità di continuare sulla strada finora percorsa e della necessità di mettere mano a una profonda riforma delle istituzioni. Si potrà obiettare che le distanze fra queste forze politiche sono così grandi da rendere molto incerta la riuscita di un tentativo del genere. Ma, al di là delle evidenti differenze, forse che nel 1946/1947 il fossato politico e culturale che divideva i partiti presenti nell’Assemblea Costituente era meno ampio?

Valentino Baldacci