Promemoria da viaggio
Se, dopo una quindicina d’anni relativamente sedentari per svariate ragioni, ed un viaggio molto lontano per una ragione eccezionale, dovesse capitare di riprendere in mano un paio di valigie ed una manciata di biglietti d’aereo che tengano in volo per almeno due mezze giornate, ricordarsi di:
Uno, non portare con sé il candeliere da viaggio per Shabbat. Carino, maneggevole, apribile e richiudibile con calamita, perfetto per inserirvi i lumini. Però: del tutto inutile, se il timore di non poter portare con sé in aereo le candele preclude la presenza delle medesime ed obbliga a lunghe, complicate successive ricerche per procurarsele, insieme ai cerini per accenderle, dovendo non solo promettere di non avere intenti piromani, ma anche che non saranno usate in luoghi chiusi (cosa del tutto impossibile). Salvo scoprire poi che, forse, in stiva le candele in gel possono andare – tempo stimato per scoprire cosa siano le candele in gel, ed eventualmente procurarsele, facendo apposite danze propiziatorie perché non vengano sequestrate: diversi mesi, quindi opzione da non tenere in considerazione dato il rapporto negativo tra benefici e costi.
Il candelabro portatile è, anzi, financo controproducente: la sua forma ogivale ed il materiale metallico di cui è costituito, lo rendono una probabile pericolosissima arma. Controllato, rigirato da fronti aggrottate, passato di mano in mano dal personale aeroportuale di diversi Paesi qualora portato nel bagaglio a mano, persino tenuto vagamente in ostaggio in cambio di complicate spiegazioni sul suo utilizzo che hanno necessariamente comportato partire da Bereshit (è un portacandele, che serve per un certo uso, specifico per un certo giorno della settimana, per una religione che lo richiede tra i suoi precetti, eccetera eccetera… tempo di sosta medio ad ogni controllo: venti minuti); controllato nel bagaglio in stiva – privi della certezza matematica che la valigia sia stata aperta per il candelabro, possiamo però supporlo, dato che esso era l’unico oggetto fuori posto e non correttamente richiuso.
Due, evitare il romanticismo di condurre con sé da un Paese all’altro cestini di foglie di palma intrecciati con fatica e fierezza, perché dopo numerose lodi per la loro fattezza (ed orgogliose spiegazioni sul tempo impiegato per imparare l’arte dell’intreccio e sulla gradevolezza estetica direttamente proporzionale al livello di apprendimento) vi verranno sicuramente sequestrati, adducendo la futile motivazione che le foglie non sono ancora completamente secche e potrebbero importare dannosissimi parassiti (fugace, il dubbio che ora i cestini siano in bella mostra in qualche salotto).
Tre, misterioso è cosa possa essere considerato un oggetto pericoloso e contundente per il bagaglio da stiva. Una noce di cocco vuota e secca conservata per ricordo pensando di ricavarvi un porta oggetti, pericolosissima. Il siddur Sha’ar Zahav (San Francisco, 2009: 668 pagine e copertina rilegata in similpelle, per un peso complessivo di un chilo e mezzo, possibile). Nel dubbio, mettere tutto nel bagaglio di stiva. Pare che oggigiorno le valigie non spariscano più e che al massimo restino qualche giorno perse in luoghi lontani, ma secondo vox populi ritornano sempre. Quindi, mantenere il sangue freddo e non farsi prendere da una certa diffidenza che porta a mettere nel bagaglio a mano quanto si ha di più caro indipendentemente dal peso e dal suo uso, reale e supposto (spesso con molta fantasia, chissà se qualcuno ha pensato mai di scrivere un racconto sugli oggetti controllati, sequestrati, dimenticati).
Quattro. L’ingenuità (vera) paga. Dichiarare convintamente (perché se ne è convinti) di non avere con sé nulla che abbia a che fare con piante e cibo, a parte i cestini portati via sotto il proprio naso (ma non visti distruggere!), quando poi riaperta la valigia appaiono in ordine i dimenticati: collane ornamentali di fiori e foglie di tipo hawaiano (due esemplari), ventaglio di foglie di palma intrecciate (sfuggito alla cupidigia del personale aeroportuale, come magra consolazione, dato l’inferiore valore affettivo perché acquistato invece che autoprodotto come invece i cestini), limoni selvatici di isole subtropicali (due esemplari, poi miseramente seccati ed ammuffiti prima di poterli trasformare in limonata). Tremore per non aver risposto correttamente all’indagine.
Cinque, in conclusione. Mai, dico mai, affezionarsi alla gentilezza altrui incontrata mediamente quasi ovunque, alla disponibilità ed alla sollecitudine lavorativa. Dire buongiorno entrando in un negozio piuttosto che alle poste, ed essere trasparenti. Aspettare che le impiegate finiscano di chiacchierare sugli acquisti al mercato prima di essere presi in considerazione. Soffrire più per i sorpassi da destra e le automobili piazzate a cento all’ora in autostrada in corsia di sorpasso che-è-mia-e-non-mi-ci-schiodo, che per il jet leg. Bentornati in Italia.
Sara Valentina Di Palma