L’odio e l’insulto
Da parte di molti si attribuisce alla diffusione dei social media la responsabilità della crescita dell’odio politico e del conseguente, e crescente, uso dell’insulto nei confronti degli avversari, considerati non tanto come tali ma come nemici da abbattere.
In realtà la pratica dell’odio politico, e più in generale collettivo, comprendendo quindi anche l’odio religioso e quello ideologico, non sono un prodotto esclusivo dei nostri tempi e quindi dell’uso di certe tecnologie. Basta riandare con il pensiero alle guerre di religione, senza naturalmente dimenticare l’odio che contro il popolo ebraico è stato riversato – con tutti i mezzi a disposizione – da parte delle chiese cristiane e anche del mondo islamico, e che ancora non si può dire sia del tutto cessato.
Ma anche senza andare troppo lontano nel tempo, se ci riferisce alla storia più recente, a quella del XX secolo, la pratica dell’odio e l’uso dell’insulto hanno profondamente caratterizzato la cultura politica sia della destra che della sinistra, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Ricordiamoci degli insulti coniati da Gabriele D’Annunzio contro uomini politici liberali come Nitti e Giolitti, gratificati rispettivamente degli epiteti di «Cagoja» e di «Boia labbrone». Una pratica dell’insulto subito accolta dal nascente movimento fascista e poi praticata per tutta la durata del regime.
D’altra parte negli stessi anni il movimento comunista internazionale si caratterizzò per l’uso degli insulti più feroci nei confronti, soprattutto, di quelle figure che provenivano dalle sue file e che, per un motivo o per l’altro, ne erano usciti o ne erano stati espulsi. Si pensi al caso più noto, quello di Trotzkj, nei confronti del quale furono usati tutti gli insulti possibili, compresi quelli di fascista, spia, terrorista e simili. Insulti poi utilizzati anche nei confronti di tutti quei leader sovietici che si erano opposti a Stalin nella lotta per il potere. Ma anche nel dopoguerra, e anche in Italia, l’uso dell’insulto come strumento per diffondere l’odio contro l’avversario politico ebbe larga diffusione. Per citare un solo caso, il solitamente compassato Palmiro Togliatti gratificò dell’epiteto di “pidocchi” (“pidocchi che si annidano nella criniera di un nobile destriero”) due esponenti del suo partito, Aldo Cucchi e Valdo Magnani, in dissenso con la sua linea politica. L’elenco potrebbe continuare all’infinito ma questi pochi esempi bastano.
Anche ai nostri giorni, se si scorrono i titoli di alcuni quotidiani di destra, l’abitudine all’insulto e all’istigazione all’odio come strumento di lotta politica è molto diffuso, mentre da sinistra si abusa nei confronti della parte avversa dell’accusa di fascismo, intesa anch’essa come insulto.
Esiste un modo che consenta di superare questo continuo ricorso all’insulto e all’istigazione all’odio? Se non vogliamo cadere nel moralismo, bisogna dire che il sistema democratico dovrebbe produrre gli anticorpi nei confronti di chi considera chi esprime idee diverse non un avversario politico ma un nemico da combattere con tutti i mezzi. E tuttavia è sotto i nostri occhi il fatto che proprio la libertà di espressione – valore fondamentale di un sistema democratico – finisce per essere usata nella maniera più distorta, non come civile scambio di opinioni diverse, ma come strumento di sopraffazione, almeno con le parole, nei confronti di chi ha opinioni diverse.
Bisogna perciò concludere che non esiste rimedio e che bisogna rassegnarsi a vivere in un universo carico di odio e di parole malate? Senza illuderci di trovare soluzioni definitive, la sola via d’uscita sembra essere quella dell’imposizione di regole, e di regole che prevedono, in caso di violazione, precise sanzioni. Questa vale nel caso dei social media ma anche nei confronti dei più tradizionali mezzi di comunicazione. Considerare la libertà d’espressione come la possibilità senza limite di costruire un mondo basato sull’odio significa aver perduto il senso del limite e anche del significato dei valori che sono alla base di una convivenza civile. Occorrono perciò regole precise per quanto riguarda il linguaggio che è lecito usare nei social media ma anche negli altri strumenti di comunicazione. Occorre, in altre parole, che si abbandoni un’idea di libertà senza regole e che si torni a riconoscere allo Stato funzioni che progressivamente sono state più o meno tacitamente cancellate.
Valentino Baldacci
(5 settembre 2019)