Timori e transiti

claudio vercelliLa questione, ripetutamente sollevata, anche in molti interventi trascorsi apparsi su questa newsletter, riguardo alla progressiva migrazione di una parte degli ebrei europei verso Israele, al netto delle polemiche estemporanee, come anche delle occasionali piegature di ordine politico ed elettorale, impone alcuni riflessioni di merito. I dati di flusso, ma anche la dimensione strutturale dei processi in corso, è stata abbondantemente trattata da Sergio Della Pergola con la sua abituale perizia, in questi anni. Non c’è bisogno, quindi, di tornarci sopra, evitando semmai le letture che intendono piegare in un senso o nell’altro un fenomeno i cui lineamenti sono di per sé spuri, ossia eterogenei, partendo da motivazioni diverse ma non necessariamente alternative o in opposizione tra di loro. Non è fuga dinanzi alla pressione di orde barbariche alle porte della civiltà ma non è neanche abituale prassi, alla quale rivolgersi con un’irresponsabile scrollata di spalle. L’allarmismo, come atteggiamento emotivo, è immotivato, se con esso si intendesse invece parlare di una minaccia immediata e irrevocabile. Almeno in Italia. Mentre senz’altro serpeggia in certuni, se non in molti, un senso di crescente inquietudine, il quale non è detto che non abbia un qualche riscontro. Si tratta di un qualcosa al momento ancora di molto sottile, ma che sembra rimandare ad un’eco di fondo, questa sì potenzialmente minacciosa. Riordiniamo allora i pensieri, cercando di non ingarbugliare ancora di più la matassa del discorso, rimanendone poi aggrovigliati. Se continuiamo a parlare dell’Italia c’è un dato sub-culturale di fondo al quale rimandare: esiste e persiste ancora un diffuso atteggiamento di diffidenza nei confronti degli ebrei, in un paese dove il cattolicesimo di “senso comune” incorpora, al di là degli sforzi fatti dalle istituzioni per andarvi oltre, elementi del vecchio antigiudaismo. Al momento non è un problema della politica, al di là di alcune manifestazioni demenziali, ma di un certo modo di pensare. Di per sé, per quanto tedioso, non è necessariamente pernicioso. Ma è come quel virus in circolo che, poste certe condizioni ambientali, si attiva quando le difese immunitarie tendono a cedergli il passo. Certo – vale la pena di ripeterlo: siamo dinanzi a forme ammortizzate, sedimentate e rese per buona parte socialmente inoffensive. In sé il fenomeno non costituisce, nella sua forma stereotipizzante, un problema di eccessivo tenore. Tanto più, come già si riconosceva, dinanzi agli sforzi che dagli anni Sessanta in poi la Chiesa cattolica ha compiuto per superare quanto meno gli aspetti più rimarchevoli di tale pregiudizio. Ma i vertici istituzionali di un’organizzazione non coincidono sempre e comunque con le articolazioni periferiche di una comunità ampia, fatta di una pluralità di credenti, che pensano e agiscono per conto proprio. Questo è quindi un primo punto da cui partire, poiché la questione diventerebbe invece diversa, assumendo una veste molto più problematica, qualora dovessero entrare in gioco meccanismi che rendano meno attivi quegli anticorpi che pure sussistono. E tale configurazione si darebbe, nel qual caso, dal combinato disposto tra persistenza della crisi economica, sgretolamento della coesione sociale (insieme alla marginalità crescente di una parte della popolazione di ceto medio), debolezza politica dell’Unione europea e mutamenti geopolitici peraltro già in atto in ambito mediterraneo. Il coniugare questi fattori, pur nella loro autonomia, infatti, darebbe alla miscela una carica esplosiva. Facciamo tuttavia un passo indietro, tornando all’oggi. Nella questione di una perplessità che si fa timore, tra gli ebrei italiani, si sommano elementi di percezione emotiva, di elaborazione culturale e di reazione comportamentale. Sono tre gradi distinti, progressivi, cumulativi, del medesimo discorso. La percezione è quella di un deterioramento, sia pure lento, ma costante, del quadro nazionale. Non tanto e non solo vero gli “ebrei” (usiamo il termine virgolettandolo, poiché il riferimento, in questo caso, non è alle persone in carne ed ossa ma al sembiante che i discorsi pubblici sull’ebraismo, da parte dei non ebrei, evocano, o portano con sé, quando si entra nella sfera delle argomentazioni che rimandano al ruolo delle minoranze nelle comunità nazionali a democrazia pluralista) ma della società in quanto tale, nella quale gli ebrei (questi sì in carne ed ossa) potrebbero tornare ad occupare una posizione scomoda. I fatti di più di settant’anni fa, da questo punto di vista, costituiscono un precedente insuperabile. Si tratta, a mio avviso, perlopiù ancora di un riflesso condizionato, ingenerato dalle reali difficoltà in cui si trovano alcuni paesi europei, a partire dalla Francia, dall’Ungheria, dalla Polonia, le cui vicende – e interne convulsioni – si riflettono sul modo in cui viene poi elaborata la propria situazione in Italia. L’elaborazione razionale porta però a quel disagio al quale si faceva menzione precedentemente. Ad esempio, tutto l’impegno devoluto dalle Comunita ebraiche e dall’Unione sui temi del Giorno della memoria si confronta con i limiti dettati da una democrazia affaticata. La pedagogia civile, da questo punto di vista, da sola non basta per mutare i termini della coscienza altrui. Non di meno, gli effetti a volte contraddittori dei processi di immigrazione, si iniziano a misurare. Laddove una parte dei nuovi cittadini italiani, o comunque dei residenti di origine straniera, non sente come “propria” la tematica civile che noi abbiamo acquisito confrontandoci con un passato, quello dello sterminio per mano nazifascista, che invece considerano come storia “altrui”, che non li chiama in causa. Né direttamente, né indirettamente. Quelle stesse persone che invece pensano all’Europa non solo come ad una terra di approdo e di nuove radici, ma anche ad un continente che fu alla base del colonialismo e, quindi, delle loro disgrazie. Nutrendovi quindi un rapporto contraddittorio, di reciprocità ma anche di rifiuto. La reazione ebraica, infine, rimane ancora allo stadio elementare, trattandosi di un problema più individuale che di gruppo. Anche qui molto dipenderà dall’evoluzione del problematico quadro di contorno, la cornice euro-mediterranea. Poiché se le cose dovessero peggiorare è difficile dubitare che le istituzioni pubbliche, democratiche non si adopererebbero per aiutare gli ebrei. Ma diversa potrebbe invece essere la disposizione d’animo di una parte della collettività. Quella società civile a volte attraversata da populismi, comunque sempre più spesso abitata da ansie, timori e risentimenti, a tratti incattivita perché ai margini delle grandi scelte, i cui effetti ricadono su di essa, il più delle volte negativamente, sentendosi al contempo inerme, indifesa e perciò inacidita. Detto questo, va aggiunto che ci si trova a dovere riscontrare come l’antisionismo stia diventando, da questo punto di vista, una forma “cortese”, ossia blandamente ingentilita, quindi un poco più accettabile sul piano sociale, di antisemitismo. Si tratta, politicamente e culturalmente parlando, di un fenomeno trasversale, per così dire overcrossing, che raccoglie nuovi adepti un po’ ovunque ma soprattutto ad in quel che resta di alcuni spezzoni di una sinistra, cosiddetta radicale, che è alla ricerca di capri espiatori, di semplificazioni dinanzi alla complessità dell’esistente e di fronte alla debolezza e alla residualità del suo insediamento politico. L’antisionismo, laddove si tematizza Israele come “ebreo collettivo”, responsabile delle peggiori nequizie storiche e morali, diventa così la nuova forma, la frontiera più recente, e anche quella più credibile e premiante, di un vecchio pregiudizio. Anche perché l’antisemitismo ha incredibili capacità mimetiche. Essendo una sorta di tradizione storica in costante mutamento e in perenne adattamento ma destinata a rigenerarsi da sé. Detto questo, a tale sfida, pur con tutte le cautele del caso, va detto che una norma, una legge, da sole non potranno rispondono in maniera sufficiente ai grandi problemi sociali e culturali che si celano, occultandosi e cambiando di segno, dietro alle criminali banalizzazione del pregiudizio. Alle sfide del negazionismo, così come all’avversione contro le minoranze, si può anche dare un volto attraverso la procedura penale, ma pensare che si possa ricostruire un’opposizione politica, ossia collettiva, invero pubblica, contro le derive della ragione, della deresponsabilizzazione, dell’antisemitismo camuffato sotto le false spoglie dello pseudo-discorso sulla “menzogna di Auschwitz”, solo con la sanzione, rimane una risposta a metà. Ci sono tre nuovi orizzonti per il risentimento antiebraico: il web, in quanto habitat di relazioni virtuali; il radicalismo islamista, che spaventa molti ma seduce tanti altri, non solo musulmani; il complottismo, che sostituisce alla storia una visione capovolta, semplificatoria e quindi avvincente per non pochi, della realtà quotidiana, altrimenti per questi stessi incomprensibile. Da questi elementi, e dalla loro possibile saldatura con i cambiamenti in corso nelle nostre società, dove le stesse relazioni tra minoranze e maggioranza stanno conoscendo rilevanti trasformazioni, dipende il destino non solo delle prime ma anche della seconda. E con esse, di quella cosa che continuiamo a chiamare democrazia. 

Claudio Vercelli

(8 settembre 2019)