Periscopio
La giustizia da seguire
L’ultima sessione (esattamente, la LXXIII) della Sihda (la “Société International pur l’Histoire de les Droits de l’Antiquité”: associazione che offre, agli storici del diritto di tutto il mondo, un comune tavolo di incontro e discussione, dando anche l’occasione di cementare rapporti di colleganza e amicizia per me particolarmente preziosi), svoltasi a Edimburgo dal 3 al 6 settembre, è stata quest’anno dedicata al tema de “le droit et sa place dans le monde antique”. Un argomento certamente di alto interesse, che ha permesso di mettere a confronto dati diversi, relativi agli spazi fisici in cui, nelle varie civiltà antiche, il diritto, nelle sue diverse forme, trovava le sue modalità di attuazione e celebrazione. E le sollecitazioni scaturite dalle relazioni e dal dibattito congressuale sono state molteplici e suggestive, non solo ai fini di una più completa ed esaustiva conoscenza delle antiche modalità di applicazione della giustizia, ma anche – in linea con quello che è, da sempre, uno degli scopi specifici dei lavori della Societé – per una più matura comprensione delle varie funzioni e ritualità dei meccanismi giurisdizionali nel mondo attuale.
Quando si parla di diritto, com’è noto, si pensa innanzitutto a idee, parole – scritte o orali -, leggi, consuetudini, sanzioni, procedure. Il diritto è un innanzitutto un comune “dovere essere”, più o meno condiviso o imposto, ma comunque vincolante, obbligatorio. Esso ha sempre bisogno, in maggiore o minore misura, di un’autorità, di una forza – fisica o psichica – atta a permetterne la realizzazione. Non può esistere una giustizia la cui applicazione ed effettività sia unicamente rimessa alla libera accettazione dei suoi destinatari. Ma, per poter essere credibilmente ed efficacemente applicata nei confronti dei suoi destinatari, la giustizia ha sempre bisogno non solo di parole atte a tradurne la sostanza, ma anche di specifici luoghi nei quali essa possa essere interpretata, dichiarata e realizzata. Tutti i popoli antichi, così, hanno variamente fatto riferimento a scuole di diritto, tribunali, luoghi di giudizio, costrizione e tortura, patiboli. Posti di varia natura – stanze, palazzi, porte, piazze, arene – in cui gli uomini hanno profuso – in varia misura, a seconda delle diverse circostanze storiche – sapienza, cultura, pietà, brutalità, crudeltà, sadismo. Il teatro e il dritto, com’è noto, hanno molto in comune, nell’antica Grecia sono praticamente nati insieme, e non a caso, ieri come oggi, chi promuove un’azione giudiziaria viene chiamato “attore”. E, così come non può esistere un teatro senza uno spazio, non può darsi un diritto senza un suo “luogo”.
Ma dall’insieme del dibattito congressuale mi è sembrata scaturire una sottile domanda. Sono, i luoghi del diritto, sempre funzionali alla sua realizzazione, o non può forse dirsi anche il contrario? Le stanze del potere, lì dove i re, i sacerdoti, i faraoni, i giudici, gli imperatori hanno decretato, spesso in modo apodittico e insindacabile, riguardo alla vita e alla morte delle persone, sono servite alla realizzazione della giustizia, o non si può pensare che, invece, l’idea di una giustizia da applicare sia servita a riempire di sé quelle stanze, contribuendo così a una legittimazione e sacralizzazione di un potere che chiedeva unicamente di essere “giustificato”, ma non nel senso di essere considerato dispensatore di giustizia, ma piuttosto di apparire di per sé, indipendentemente dalla realtà, “giusto”?
Si tratta, evidentemente, di una domanda a cui è impossibile rispondere. Sulla stele del Codice di Hammurabi, com’è noto, è raffigurato il dio della giustizia, Shamàsh, nell’atto di consegnare al re lo scettro del potere. Chi comanda, chi viene prima, il dio o il re?
Personalmente, mi si è rafforzata, nel corso del convegno, un’idea che era già presente, sia pure in modo accennato, nella relazione che ho pronunciato, insieme alla collega e amica Cristina Simonetti (massima studiosa dei diritti sumerici e accadici), intitolata “I luoghi del diritto nell’antico Oriente mediterraneo. Israele e Babilonia”. L’idea che il diritto e la giustizia siano tanto più forti e credibili, tanto più autorevoli e rispettati quanto più siano staccati dall’idea di un determinato e specifico “luogo” deputato alla loro realizzazione.
Ciò pare particolarmente evidente del diritto ebraico, alla cui concezione originaria pare estranea l’idea di un determinato luogo deputato all’amministrazione della giustizia, mentre appare anzi ricorrente la rappresentazione di un diritto dichiarato e applicato fuori da un preciso spazio circoscritto. Dio è il primo giudice, che giudica, premia e punisce singoli individui, città, popoli e nazioni e, in quanto giudice cosmico, non ha un luogo, perché è dovunque. La Torah, preesistente alla creazione dell’universo, è consegnata non in Terra d’Israele, ma nel deserto, un “non luogo”, di tutti e di nessuno, perché è patrimonio di tutti gli uomini. Nella halachah, così come nella tradizione più antica, non è presente l’idea che la pronuncia del diritto debba avvenire soltanto in un preciso luogo determinato. Anzi, tale idea pare rifiutata (come paiono indicare i diversi riferimenti negativi ad Asherah, la divinità pagana – erroneamente assimilata ad Astarte – ritenuta “la moglie di Dio”, radicata in un determinato luogo sacro), in quanto idolatrica. Non esiste, in ebraico, l’equivalente dell’espressione latina “in iure”, dal significato sia locativo sia concettuale. Nessun luogo specifico può certificare la retta applicazione della giustizia, in quanto essa ha come fonte legittimante esclusivamente se stessa. Il fatto che una sentenza sia pronunciata in un determinato luogo, per quanto solenne e consacrato, non garantisce che la giustizia sia stata realizzata, perché, dopo essere stata applicata, essa deve ancora essere ricercata. È questo, probabilmente, il senso recondito della nota reiterazione del Deuteronomio: Tzèdek, tzèdek tirdòf: “la giustizia, la giustizia seguirai”. La giustizia va sempre seguita, anche dopo che sembra che sia stata raggiunta. Non si può mai dire (se non, forse, alla fine dei tempi), “giustizia è fatta”.
Francesco Lucrezi
(11 settembre 2019)