La differenza tra sogni e speranze
Vorrei connettere sogno e speranza e vorrei spiegare perché credo sia importante che il sogno non uccida la speranza. Perché parleremo di sogno il prossimo 15 settembre? Forse per non parlare della realtà. Il sogno può talora configurarsi come presagio, come prefigurazione di un evento che accadrà o dare forma e configurazione a una vita e a una biografia. I sogni che incontriamo nel Tanakh sono questo: testimoniano di questo percorso. Ma non parlano di speranza. Tra sogno e speranza c’una differenza importante. Il sogno è una raffigurazione al futuro di ciò che vogliamo o ci viene assicurato che ci sarà. La speranza, invece, non è certezza. C’è un’immagine della porta del battistero di Firenze, scolpita da Andrea Pisano, in cui si mostra la Spes, la Speranza, con le braccia tese verso l’alto come Tantalo che cerca di afferrare qualche cosa. Quel qualcosa tuttavia non ha né un volto, né un chiaro contenuto. Non è né un oggetto, né un luogo. Così la speranza non solo non è certezza, ma è un tendere, un andare verso senza che sia chiaro un obiettivo. Perché è importante distinguere tra sogno e speranza? Perché forse quello smarrimento che sta tra il sogno e la raffigurazione della speranza parla molto della nostra condizione collettiva al tempo presente. E forse perché un modo per uscirne è cercare di connetterli, senza che il primo si mangi la seconda. Il nostro orizzonte è al più una “navigazione a vista” per mantenerci instabilmente nel presente. Perché? La condizione diffusa, mi sembra, sia quella che non riusciamo più a pensare futuro (forse lo immaginiamo, magari con una proiezione da fantascienza) perché non riusciamo più a fare tre cose. La prima. Pensiamo che futuro sia solo soddisfazione di ciò che non funziona (in questo senso confondiamo futuro con utopia, con sogno utopico), per cui il futuro è solo immaginario di cose che funzionano perfettamente e soprattutto è assenza di problemi. La seconda. Pensare futuro implica prendersi delle responsabilità, correre dei rischi, scegliere e, soprattutto pensare non in termini di soddisfazione immediata per noi, ma come investimento per le prossime generazioni. La terza. Abbiamo maturato un senso di frustrazione, di rivendicazione, di rabbia per cui l’unica cosa che ci affascina è il riparare ai torti che abbiamo subito (o che diciamo di aver subito), e dunque abbiamo un rapporto di rivendicazione sul passato prossimo che è l’unica piattaforma con cui riusciamo a pensare futuro che così risulta ridotto alla quotidianità. Queste tre cose parlano, mi sembra, molto dell’Europa di oggi, della sua crisi (e forse anche del vissuto ebraico dentro questa crisi). Noi non immaginiamo futuro, meglio non stiamo costruendo meccanismi culturali per immaginare o, più propriamente, per desiderare futuro. Contemporaneamente, ma forse anche conseguentemente, il nostro desiderio è quello di fermare il tempo essendo attratti dal passato. Sognare per molti è diventato contrastare la realtà rimettendo le cose al loro posto, ovvero facendo in modo che ogni pezzo torni al suo posto originario. Siamo stati così costruiti pensando utopia come architettura del mondo al futuro, da non essere più in grado, una volta che le utopie narrate del Novecento hanno mostrato la loro corruttibilità, di vivere scetticamente, ovvero liberi nelle sfide che il presente ci propone, per trovare la forza per vivere senza il soccorso di qualcosa che sta fuori dalla storia o del pensiero razionalista.
David Bidussa, Pagine Ebraiche settembre 2019