Ebraismo, identità e realtà complessa
Monolitismo visione fuorviante

gadi luzzatto vogheraNon è impresa semplice recensire in maniera organica il libro Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l’eccezione, la storia (Donzelli, 2019) di Sergio Luzzatto. Si tratta infatti di una raccolta di articoli, recensioni e interventi che ha scritto nell’arco di un ventennio, misurandosi con il tema della storia degli ebrei nel rapporto intrecciato con quella delle altre civiltà. Il testo offre una prospettiva disomogenea che a fatica è riconducibile a un filo conduttore unitario. I temi trattati sono distanti, così come assai diversificati sono sia i contesti culturali – tutti per la verità di grande interesse – sia i momenti cronologici. Ben venga in ogni caso la scelta di sistematizzare il tutto in un unico testo. Nella lunga premessa (unico capitolo inedito del volume) il lettore viene accompagnato lungo un percorso che tiene insieme questa corposa produzione. Le questioni che vengono poste sono importanti, così come gli interrogativi che attraversano in maniera trasversale il mondo della ricerca storica, le istituzioni universitarie e la politica, sempre tentata di utilizzare in maniera strumentale la storia stessa. Mi soffermo su tre punti che mi paiono rilevanti.
luzzattoIl primo argomento discende direttamente dal tradizionale e quasi bicentenario dibattito sulla “questione ebraica” inaugurato da Karl Marx e Bruno Bauer ed è già presente nel titolo: gli ebrei sono un popolo normale, “come gli altri”. Una dichiarazione che nell’intenzione dell’Autore dovrebbe risultare esplosiva, stupefacente. Ma non mi sembra una tesi nuova, come ha già rilevato Anna Foa in un suo recente intervento; fra l’altro questa deve fare i conti con un problema concettuale sottaciuto nell’intero volume e tuttavia importante quando si utilizzano concetti impegnativi come quello di “popolo”. Si tratta infatti di un lemma che di certo è utile come strumento polemico a Luzzatto per accusare di etnicismo (e anche di razzismo) questo o quel governo israeliano; necessario anche a criticare aspramente (a mio parere in maniera in parte giustificata) il concetto di Jewish history, al quale si deve preferire la più funzionale “storia degli ebrei”, connessa ai contesti storici nei quali questa si sviluppa. Utile, inoltre, a mettere sotto accusa la visione nazionale di un certo modo di intendere l’ortodossia religiosa ebraica, che ha un peso non indifferente nello sviluppo delle dinamiche politiche sia dello stato d’Israele sia delle comunità della diaspora. Tuttavia il concetto di popolo ebraico è stato rivisitato da molti decenni con accenti più che critici dalla più matura storiografia e dalla sociologia storica. Lo stesso editore Donzelli (il medesimo dell’attuale libro di Luzzatto) ha pubblicato già nel 1993 un volume decisivo a questo proposito (Shmuel N. Eisenstadt, Civiltà ebraica) che spiegava al pubblico italiano la complessità di ricondurre al solo lemma di “popolo” la vicenda spazio temporale che ha visto comparire nella storia a più riprese e in diversi luoghi un gruppo umano definito con diversi nomi (ebrei, giudei, israeliti ecc.), portatore di caratteristiche in parte omogenee e in parte assai articolate. Il secondo argomento che mi pare importante, specialmente quando si parla di storia degli ebrei, è quello legato alla lingua. In maniera molto onesta l’Autore dichiara la sua difficoltà nei confronti della lingua ebraica ed è quindi costretto ad appoggiarsi in traduzione alle profonde riflessioni sulla storia degli ebrei proposte soprattutto dal compianto Amos Oz e da sua figlia Fania, che di mestiere appunto fa la storica. Naturalmente l’ignoranza della lingua e quindi l’impossibilità di controllare le fonti primarie in ebraico non impedisce a uno storico esperto di ragionare in maniera critica sulle pubblicazioni che gli sono sembrate più significative e innovative nell’ambito degli studi ebraici. Tuttavia la stessa carenza strutturale nella competenza linguistica dovrebbe suggerire prudenza nel distribuire giudizi che troppo spesso appaiono discutibili. Nella discussione sulla legittimità dell’esistenza di una Jewish history Luzzatto pone per esempio l’accento critico sulla pretesa “metafisica” (sic) dell’esistenza di una storia ebraica separata da quella di tutte le altre culture. Si tratta di un affondo riservato in maniera esplicita al mondo dell’ortodossia religiosa ebraica che a mio modo di vedere manca l’obiettivo per due motivi: in primis non tiene conto del fatto che, a monte di tutto questo, la Jewish history nasce come disciplina proprio in connessione stretta con lo studio delle fonti primarie in lingua ebraica, che prima dell’Ottocento non erano state prese in considerazione nel mondo delle discipline storiche. La Wissenschaft des Judentums (più nota come Scienza del Giudaismo), in diretta connessione con l’Haskalah (Illuminismo ebraico) che postulava la necessità di una riscoperta della lingua ebraica come strumento di cultura, ha creato sul presupposto linguistico l’impalcatura che poi ha strutturato quella che noi oggi chiamiamo storia ebraica. In secondo luogo, prendersela con il mondo dell’ortodossia religiosa ebraica per contestare un ipotetico intento teologico nell’intendere il concetto di “storia ebraica” non tiene conto del fatto – noto ai più – che la tradizione religiosa ebraica si cura pochissimo della storia come la intendiamo noi oggi. Anzi, a volte gli è apertamente ostile; basti pensare al principio ermeneutico talmudico ricordato assai spesso nell’esegesi che recita “non c’è né un prima né un dopo” nella Torah. Una discussione su “storia ebraica vs storia degli ebrei” non può inoltre non tener conto del vivace dibattito storiografico che si è sviluppato in anni recenti. In questa generazione sono stati numerosi i contributi di studiosi come David Myers, Michael Brenner, Shmuel Feiner o David Sorkin, personalità che sono peraltro diretta figliazione di storici del calibro di Salo W. Baron e Yosef Haim Yerushalmi delle cui opinioni non si scorge traccia nel volume di Sergio Luzzatto. Il terzo argomento che sembra centrale nella premessa al libro è una discussione sulle dinamiche che hanno presieduto nel decennio scorso alla nascita di una nuova storiografia relativa agli ebrei in Italia. In particolare l’Autore si sofferma sulla rivista Zakhor, implosa a seguito dello scandalo connesso alla pubblicazione del libro Pasque di sangue di Ariel Toaff che ne era condirettore. Al netto degli evidenti (e a  tratti ridondanti) regolamenti di conti accademici che traspaiono in maniera più che esplicita dalle righe dedicate alla questione, anche in questo caso non si capisce bene quali siano le ragioni che hanno spinto l’Autore a rinfocolare una polemica che pareva dimenticata e sepolta. Chi scrive questa recensione ha condiviso con i colleghi Paolo Bernardini e Piergabriele Mancuso l’organizzazione di quello che è stato probabilmente l’unico seminario universitario dedicato alla discussione del volume di Toaff. Nelle stanze della Boston University di Padova l’amico Ariel Toaff ha avuto modo di confrontarsi in maniera pacata con colleghi assai critici come il compianto Michele Luzzati, Reinhold Mueller, Rachele Scuro e altri ancora. Le questioni sul terreno furono molte e si incentrarono nel merito e nel metodo, mettendo a nudo le molte debolezze del volume. La ricerca storica avanza in questo modo, che mi pare sia l’unico che può sottrarre questa disciplina al pericolo di essere manipolata per altri fini nello spazio pubblico. Un’ultima nota, infine, connessa al concetto di ebraismo e dei suoi principi fondamentali. L’Autore scrive una frase legata al rapporto fra ebraismo contemporaneo e Shoah che è particolarmente esplicita: “La dogmatica dell’ebraismo è riuscita ad applicarsi perfino alla storia della Shoah”. Ci si potrebbe addentrare in una discussione sull’esistenza o meno di una “dogmatica” nell’ebraismo, religione del dibattito e della puntigliosa esegesi concettuale e linguistica che lascia aperte le strade a un infinito numero di interpretazioni. In realtà si tratta di questioni note all’Autore, che per comodità retorica ha tuttavia bisogno di rivolgersi – opponendovisi – a una ipotetica concezione monolitica, unitaria, politicamente e teologicamente omogenea e oppressiva dell’ebraismo. Si faccia attenzione nell’inoltrarsi in questa dinamica. Assegnare all’ebraismo e alle sue strutture comunitarie, religiose o statuali un monolitismo che non ne riconosce le articolazioni e che attribuisce concetti identitari discutibili o non veri costituisce uno dei principi fondamentali della retorica antisemita, che Sergio Luzzatto – gliene va dato atto –combatte costantemente nei suoi scritti.

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC

(13 settembre 2019)