Ago e bilancia
È troppo presto per dire con certezza cosa concretamente e durevolmente deriverà, per il panorama politico ed istituzionale israeliano, dall’esito delle elezioni di martedì scorso. La previsionalità, infatti, rischia di rivelarsi un esercizio a rischio, peccando di sicumera. Si possono tuttavia raccogliere già alcune impressioni, che saranno poi corroborate (o smentite) nel corso delle prossime settimane. In via del tutto sommaria, qualche indicazioni di merito, pertanto, ce la si può concedere. La prima di esse è che è decisamente improbabile che vi sia un terzo passaggio alle urne. Non solo il presidente Reuven Rivlin – per molti aspetti sempre più simile al suo omologo italiano Sergio Mattarella – lo esclude ma è facile immaginare che anche se avesse seguito non muterebbe l’odierna fisionomia delle scelte elettorali. In altre parole, se non c’è adesso nessun vincitore pieno (ossia, una lista con un numero di seggi tale da influenzare i potenziali partner di coalizione, obbligandoli alle sue priorità) in tutta probabilità non ci sarebbe neanche in un futuro ravvicinato. Un tale stato di cose è peraltro una prerogativa dei sistemi proporzionali, obbligatoriamente coalittivi: il partito di maggioranza relativa deve sempre sapere con chi stare (e a quali condizioni). Al Likud, fino ad ora, ciò era riuscito, ma la sequenza che lo vedeva attore politico di prima grandezza si è interrotta già nei mesi scorsi, con il rifiuto di Lieberman di proseguire su questa strada. Yisrael Beiteinu, non a caso, è uscita beneficiata dalla scelta, politicamente intelligente, di cercare di andare oltre la rappresentanza della enclave “etno-nazionale” degli ebrei russi, per proporsi invece come il collettore di una delle grandi faglie di divisione dell’elettorato israeliano, quella tra laici e religiosi. Ovvero, delle crescenti indisponibilità dei primi riguardo ai secondi. Tema non certo nuovo, in Israele, ma che adesso si coniuga alle trasformazioni demografiche della società, che vedono una crescita delle componenti ultraortodosse. Così come al mutamento delle politiche pubbliche di Welfare. Avigdor Lieberman, che sa di non potere aspirare al ruolo di primo ministro, tuttavia punta (e con crescente riscontro) a divenire l’ago della bilancia in un governo di coalizione, cercando quindi di influenzare direttamente l’identificazione e la nomina del premier. Con Netanyahu, del quale è stato a lungo un sodale, la frattura si è consumata già da parecchio tempo. Peraltro, ed è un’altra considerazione di merito, il Likud non è più il partito al quale ancora molti pensano, avendo a sua volta subito dei cambiamenti al suo interno. Le tensioni tra Rivlin (il «presidente di tutti») e Netanyahu, almeno degli ultimi due anni, ne sono una delle manifestazione. Da una parte chi si rifà alla cultura politica revisionista tradizionale; dall’altra, ed è il caso del primo ministro uscente, chi l’ha superata per assumere un indirizzo sospeso tra sovranismo e identitarismo etnico. Plausibile che dentro il Likud, gli oramai ventitre anni di predominio di Bibi possano ora essere messi in discussione. Come è avvenuto per altre leadership conservatrici, devitalizzate quand’esse non offrivano più le potenzialità per una nuova stagione coalittiva. D’altro canto, l’avere premuto in più di un caso il tasto del distanziamento e della differenziazione rispetto alle componenti arabe dell’elettorato israeliano, ha indotto queste ultime – almeno tra quanti già non votavano per altri partiti – a scegliere, in misura ben maggiore di quanto non fosse successo cinque mesi fa, le liste arabe, ovvero la Joint List, l’unione di quattro gruppi tra di loro eterogenei ma sufficientemente determinati nel rivolgersi all’elettorato non ebraico. I seggi così ottenuti hanno fatto sì che la coalizione elettorale araba si presenti adesso alla Knesset come il terzo raggruppamento, in ordine di grandezza decrescente. Ed è un segno rilevante, anche se è difficile immaginare che le diverse posizioni che questa raccoglie possano esprimersi all’unisono, magari diventando addirittura parte di una coalizione di maggioranza. Nelle prossime settimane, anche in vista di un orizzonte a breve, quello di ordine giudiziario, il banco della discussione sarà tuttavia impegnato dal futuro politico di Netanyahu. Sembra molto improbabile che l’offerta che ha già formulato a Kahon Lavan, ovvero di una leadership a due, insieme a Binyamin Gantz, con la rotazione del premierato (due anni a testa), possa avere una qualche speranza di successo. Bianco e blu e Yisrael Beiteinu puntano alla sua definitiva estromissione dal proscenio politico, relegandolo al ruolo di parlamentare. Non sarà una cosa facile né indolore poiché la «modalità Bibi» ha influenzato tangibilmente l’indirizzo della politica israeliana, concorrendo a spostarne il baricentro verso una destra sospesa tra populismo, identitarismo e sovranismo, nel giro di quasi un ventennio: forte concentrazione sulle questioni della sicurezza (per la quale a lungo è stato considerato il politico che poteva offrire maggiori garanzie al Paese); marginalizzazione definitiva dei temi legati alla contrattazione con i palestinesi; incremento della presenza degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, fino alla formulazione, ma già in articulo mortis, della possibilità di annettere unilateralmente la valle del Giordano; politica militare decisa ma anche misurata, ossia attenta a non farsi trascinare nel gorgo di un nuovo conflitto territoriale e regionale; contrasto dell’azione islamista ma, anche qui, senza cadere nelle trappole di una guerra permanente; gestione liberista dell’economia; interlocuzione con i partiti religiosi in quanto partner indispensabili nelle coalizioni di governo; persistente conflittualità con gli altri poteri, a partire da quello giudiziario, in vista di una limitazione delle loro prerogative; accentuazione del tema dell’identità nazionale come identità ebraica, soprattutto nei confronti dell’idea di cittadinanza e della natura delle pubbliche amministrazione; in politica estera, maggiore investimento nei rapporti bilaterali, nonché apertura verso l’Est europeo e la Cina, di contro al multilateralismo implicato dai sistemi di negoziazione e pattuizione internazionale. Per inciso, nessuno di questi (ed altri) passaggi costituisce in sé un tratto esclusivo del Likud di Netanyahu. Va invece detto che dalla fine degli anni Novanta, ossia con il definitivo declino della stagione negoziale nei confronti della controparte palestinese, egli è stato tra quanti meglio sono riusciti a trasfonderli in un indirizzo politico capace, al medesimo tempo, di marginalizzare la sinistra tradizionale, di svuotare di significato il concetto di «centro» politico (cosa che invece prevedibilmente Kahol Laval adesso rilancerà come alternativa al premier uscente), di agevolare il più possibile quella parte del Paese che meglio ha goduto dei benefici di Start-up Nation. C’è tuttavia una nuova questione sociale che le forze politiche tradizionali non sono riuscite ad affrontare, ed è la polarizzazione crescente nella distribuzione della ricchezza, a fronte di un bilancio economico nazionale premiante, che anche in Israele accompagna i mal di pancia di una cospicua parte del ceto medio. Il quale rivela di avere assai poco ad interesse il voto identitario e molto di più ad obiettivo la tutela della propria sicurezza sociale. Ancora una volta, anche in questo caso, Israele manifesta le sue molte analogie con l’Europa e gli Stati Uniti.
Claudio Vercelli