L’Uzbekistan e il passato interrotto
L’Uzbekistan è un paese laico. La maggioranza è musulmana, ma in giro non ci sono burka, e i hijab sono rari.
Il viaggio prevede una cena (vegetariana, per l’occasione) in casa di un collezionista di Bukhara. Grande patio, stanze distribuite tutto attorno per due piani di casa. Si entra direttamente in sala da pranzo: grande, vivace di forme e di colori, raffinata e arabeggiante. Fra gli affreschi alle pareti, per lo più di disegni floreali, ci sono sorprendentemente due splendidi Maghen David con iscrizioni in ebraico a mo’ di kamea, amuleti che invocano la benedizione per la casa. Sulla fascia superiore di una parete, poi, una grande iscrizione ebraica dedica la sala allo Shabbat e alle festività.
Difficile andarsene senza soddisfare la curiosità.
Negli anni Settanta del Novecento, con l’allentamento delle restrizioni sovietiche, molti dei trentacinquemila ebrei di Bukhara emigrarono verso Israele e verso l’America. Il resto lo fece la dissoluzione dell’impero sovietico, nel 1991. Ora a Bukhara ci sono a malapena centocinquanta ebrei. L’antichissima comunità di Bukhara, forse la più antica al mondo, si è trasferita in Israele, a New York, in Australia.
I padroni della grande casa, un sarto e un pellicciaio, fuggirono nel 1991: probabilmente non sapevano che cosa aspettarsi dal nuovo regime. Avranno portato con sé il salvabile. Hanno invece lasciato dietro di sé qualche libro – Mishnayot, qualche siddur, un parokhet, e un antico, preziosissimo Sefer Torah, fortunatamente pasul. E antichi tefillin, sporchi e maltrattati, dimenticati dal tempo.
Soprattutto, il sarto, il pellicciaio e le loro famiglie si sono lasciati alle spalle un passato di pranzi e di cene, in una splendida sala riccamente decorata di motivi floreali e di emozioni che il tempo non sa recuperare.
Ad accompagnare il turista ebreo all’uscita è il disagio per essersi intruso in un passato interrotto. Il malessere per una tradizione amputata.
Dario Calimani, Università di Venezia