Tra Firenze e Sion
“I sogni, una scala verso il cielo”: questo è stato il tema della recente Giornata Europea della Cultura Ebraica.
Parlando di sogni vorrei ricordare il salmo CXXVI che viene recitato nella birkhàt ha-mazòn (la benedizione dopo il pasto): “Cantico di Maalot. Quando il Signore ritrasse Sion di cattività, egli ci pareva di sognare” (traduzione di Dante Lattes).
Il ritorno a Sion è sempre stato fra i sogni degli ebrei in Diaspora e così anche in Italia. Vi sono però alcune preoccupazioni legittime e naturali che emergono da parte di chi affronta il sogno in una visione realistica. Già nel libro di Devarim (Mishneh Torah o Deuteronomio in italiano) che leggiamo in questi shabbatot ne troviamo la prima traccia. Il libro stesso è un lungo discorso di Mosè in cui il leader elenca una serie di preoccupazioni. Mosè si preoccupa che il Popolo, una volta entrato nella terra promessa non ricorderà più le mitzvòt (i precetti). Per approfondire, consiglio la lettura del libro “L’ultimo discorso di Mosè” di Micha Goodman.
Mentre Mosè si preoccupa per chi entrerà In Erez Israel, pare che nell’ebraismo italiano ci si preoccupi sempre di più per chi non entrerà. In un articolo pubblicato da rav Riccardo Di Segni nel 1968 su Zraim (l’organo del movimento giovanile Benè Akivà), il giovane diciannovenne, che poi sarebbe divenuto rabbino capo di Roma, rimpiangeva le difficoltà che un Olè Chadash trovava in Italia in quegli anni e l’ostilità paradossale della Federazione Sionistica Italiana (F.S.I). “Se le difficoltà che l’olè chadash trova nell’inserirsi nella società israeliana sono gravi, non meno gravi sono quelle che ancor prima di compiere l’alyah si incontrano nel paese che vuole lasciare” scriveva il futuro rav.
A distanza di 50 anni purtroppo posso testimoniare che le cose non sono molto migliorate. In una riunione di tutti i movimenti giovanili ebraici italiani organizzata dall’UCEI a cui ho partecipato l’anno scorso, l’alyah è stata segnalata dai partecipanti come uno dei “problemi dell’ebraismo italiano”. I motivi sono chiari e la frase torna ciclicamente: “Se i giovani se ne vanno, qui chi ci resta?”. Quello che però non viene preso in considerazione è che i tempi sono cambiati. I voli low-cost permettono di viaggiare molto più facilmente, internet ci mantiene aggiornati nella realtà di entrambi i paesi e varie tradizioni come ad esempio quelle liturgiche e culinarie si possono mantenere senza necessariamente abitare nella penisola. Per preservare l’ebraismo italiano non servono quindi solo ebrei che abitano in Italia. Non parliamo poi di matrimoni in piccole Comunità nelle quali l’alyah si rivela spesso come una soluzione.
A mio avviso le Comunità ebraiche italiane devono incoraggiare l’alyah e nello stesso tempo facilitare le attività rivolte ai giovani ebrei in Italia. Un esempio di Comunità dove questo avviene è quella di Firenze.
Pochi giorni fa sono andato a Firenze per dare una conferenza all’associazione Italia-Israele locale e a un’associazione evangelica. Essendo la seconda conferenza qualche ora prima di shabbat, mi sono trovato a dover passare shabbat in città. Così, per informare i miei amici fiorentini, ho scritto su Facebook che sarei stato lì. Poco dopo aver scritto, mi ha contattato rav Amedeo Spagnoletto chiedendo se avessi bisogno di qualcosa e se avessi il piacere di incontrare la Comunità e i giovani fiorentini. Così ho incontrato i giovani in una cena di shabbat nella cosiddetta “palestra”, il centro sociale della Comunità, e il resto della Comunità alla seuda shlishit di shabbat. Ho incontrato una Comunità vitale, unità e accogliente che investe molto nell’educazione dei giovani. Pensando al tema da affrontare nella seuda shlishit, ho deciso di parlare proprio di questo, di alyah e della sua percezione nelle Comunità italiane.
È bello ricordare che è proprio da Firenze che sono venuti una buona parte dei primi italiani in Israele (i primi italkim). Personaggi come rav Alfonso Pacifici, rav Umberto Cassuto (entrambi avevano studiato al Collegio rabbinico di Firenze con rav Samuel Hirsch Margulies), Meir Padova, Joel De Malache (inventore dell’irrigazione a goccia), lo psicoanalista Enzo Bonaventura e tanti ancora. Grazie a loro e ad altri italiani non fiorentini come rav Artom (che fu rabbino anche lui a Firenze e pregava nella sinagoga a via delle Oche) si è solidificata la Comunità italiana in Israele e sono stati fondati l’Associazione degli ebrei di origine italiana in Israele – la “Hevrat Yehudei Italia”, il Tempio italiano e il Museo di Arte Ebraica Italiana S.U Nahon.
Oggi l’insegnamento di valori ebraici e sionisti a Firenze prosegue con successo, nonostante tutti questi fiorentini abbiano scelto di venire in Israele. Tutto sotto la guida di rav Amedeo Spagnoletto (detto Ngamedeo per la gelosa pronuncia della Ngain italiana) – ‘rabbino smart’ in contatto continuo con i giovani, ma anche gran giocatore di ping pong. Fra poco rav Spagnoletto verrà sostituito dal rav Gadi Piperno, che ha già cominciato un ciclo di lezioni per i bambini della Comunità. Se questo non basta c’è anche un gruppo musicale che coinvolge vari giovani (Balagan cafè), un’associazione che diffonde la cucina ebraico-italiana (Rosso Rimmon) che è seguita anche in Israele e un bel gruppo di giovani ebrei fiorentini che si incontra periodicamente e mantiene il legame con i coetanei che hanno fatto l’alyah. Insomma, un bell’esempio di come alyah ed ebraismo in Italia non si sovrappongono. Un esempio che deve essere a mio avviso il sogno di ogni Comunità ebraica in Italia.
Michael Sierra
(25 settembre 2019)