Machshevet Israel
Aniconismo imperfetto

massimo giulianiNel De bello iudaico (libro II, cap.9) Giuseppe Flavio riferisce del tentativo di Ponzio Pilato di introdurre nottetempo nel Tempio di Gerusalemme le immagini dell’imperatore Tiberio e di come questo gesto idolatrico avesse suscitato accesissima protesta tra gli ebrei: sdegnati, alcuni di essi si recarono a Cesarea implorando umilmente il prefetto romano della Giudea di rimuovere quelle immagini che contravvenivano alle loro leggi e tradizioni. Al rifiuto di Pilato, essi rimasero – dice lo storico – cinque giorni e cinque notti nel cortile con la faccia a terra. Minacciati di morte dai soldati, essi offrirono il collo accettando il martirio. Impressionato, Pilato cedette e fece rimuovere le immagini. (L’episodio è stato rievocato da Gigi Proietti nella puntata sulla Gerusalemme antica curata da Alberto Angela, sabato scorso, su RaiUno). Da sempre in ambito ebraico la questione del divieto di immagini, chiamato spesso aniconismo, trova giustificazione nella seconda delle Dieci Parole (i dieci comandamenti), usata per rimuovere una domanda filosofica assai stimolante: esiste un’estetica ebraica? Quali sono i parametri che la descrivono? Quando un’opera artistica può dirsi ebraica? Che gli ebrei si siano molto occupati di arte lo mostra ad abudantiam il gran numero di opere razziate loro dai nazisti: le hanno ‘salvate’ spedendo i proprietari nel buco nero di Auschwitz. Ma come tacere grandi art dealer come il triestino Leo [Krauss] Castelli, l’egizio-milanese Arturo Schwarz e l’ormai londinese Cesare Lampronti? E perché non ricordare che l’aggettivo tov in ebraico non esprime solo il valore etico del bene ma anche il valore estetico del bello?
Il pittore e filosofo Stefano Levi Della Torre, nel suo volume Zone di turbolenza, affronta il tema dell’aniconismo ebraico e cita Dante Lattes: “All’uomo pagano comune, che vedeva nella statua della sua divinità un essere animato, l’ebreo che pregava faceva la medesima impressione di uno che parla a se stesso o al cielo […] Gli ebrei sembravano ai greci gente senza Dio, che voleva abolire gli dèi e spogliare i templi di tutte le rappresentazioni sensibili”. Levi Della Torre ricorda inoltre le non poche contraddizioni di questa supposta rigida policy anti-iconica: l’Irrappresentabile parlava pur sempre tra due statue di cherubini e scelse e dotò lui stesso un grande artista (Bezalel ben Uri); le sinagoghe ellenistiche erano abbellite da ‘mosaici animati’ (cfr. Dura Europos); nel Talmud si parla di maestri che costruirono addirittura un golem (storia poi evoluta e culminata nel mito legato al Maharal di Praga). Tali contraddizioni fanno pensare e vanno interpretate “tanto più che la civiltà ebraica storica non è stata affatto aliena dal produrre immagini e anzi ha sviluppato nei secoli una vera e propria iconografia, sia pure attraversata da ritegni ispirati al divieto”. In sintesi, si potrebbe parlare di un aniconismo imperfetto, che fa il paio con un monoteismo debole, ossia non così rigoroso come i filosofi ebrei vorrebbero che fosse, debolezza che traspare in molta letteratura qabbalistica…
Resta un fatto che l’ebraismo religioso, nel suo insieme, tiene il sacro fuori e oltre la sfera delle immagini e dell’immaginario sensibile: non è contro l’arte tout court, è contro la pretesa di rinchiudere l’Irrappresentabile in un’esperienza sensibile. Da qui il vuoto di immagini (sculture o dipinti) nei luoghi del culto ebraico. Attraverso la proibizione di farsi immagine di tutto ciò che è vivente passa la coscienza dell’inadeguatezza di ogni linguaggio non verbale (soprattutto visivo) ad esprimere le realtà più alte: il divino, la vita nella sua essenza e nelle sue molteplici forme, la libertà. “Lo spirito – dice Steven Schwarzschild – non è suscettibile di rappresentazione”. Al Sinai i figli di Israele “videro le voci”, un paradosso che esprime il cortocircuito dei sensi all’apice dell’esperienza religiosa. Eccezione preclara, appunto, è il linguaggio verbale, la parola. Tuttavia anch’essa è immagine, riflesso della realtà, rappresentazione. Forse è “la” rappresentazione per antonomasia. Proprio per questo il giudaismo l’ha scissa in due: parola scritta e parola orale, al fine di evitare che la scrittura diventasse una nuova forma di idolatria, una forma di lapidolatria (culto delle tavole di pietra) o bibliolatria (culto del libro in quanto tale). Il Dire, la Torà she-be- ‘al pè, è l’antidoto alla stessa idolatria del Detto, come parola fissata, statica, statuaria. È la lezione delle stanghe che non dovevano essere rimosse dall’arca santa: segno di movimento e di provvisorietà persino del simbolo più sacro. Solo nei due momenti della creazione e della rivelazione al Sinai, dice Levi Della Torre, “sembra riaffiorare la lingua originaria in cui il nome è anche immagine, e l’uno e l’altra colgono l’essenza delle cose. In fondo l’arte e la poesia sono il tentativo ripetuto di risuscitare quella lingua integrale, non strumento di comunicazione ma immediatamente ‘vera’. E appunto non è il disprezzo ma il credito dato a questa potenza del linguaggio (verbale o figurativo) a ispirare il divieto di immagine”. Meglio ragionare, dice Schwarzschild, in termini ‘estetica ebraica dell’arte’ più che di ‘estetica dell’arte ebraica’. Distinzione sottile ma pregnante.

Massimo Giuliani, Università di Trento

(26 settembre 2019)