Greta, i suoi fratelli
e le sue sorelle
Dire qualcosa di sensato nella ridda aggressiva di affermazioni e controaffermazioni che si susseguono, nei social network così come in altri ambiti, rispetto ai giovani che manifestano sul clima (demagogici, disinformati, “servi di Soros” – quest’ultimo oramai un classico per alcune parti politiche -, opportunisti, furbetti dello sciopero, consumisti e cos’altro per certuni; santi e “rivoluzionari”, nuovi sessantottini destinati a salvare il mondo, per altri) diventa sempre più difficile. Poiché ogni cosa viene travolta dal gusto dell’invettiva – che spesso si trasforma in ingiuria – così come dal bisogno di introdurre ossessivi distinguo, quasi che dalla critica del giudizio si fosse passati ad un indiscriminato giudizio critico a prescindere (Kant non c’entra, almeno in questo caso). Anzi, polemico, poiché non l’analisi e la comprensione ma il pregiudizio e la divisione sembrano essere divenuti, paradossalmente, gli unici moventi che tengono insieme persone altrimenti non solo diverse ma divise per sempre. La vera linea di separazione, oggi, è quella che pone in contrasto un qualunquismo diffuso, avverso ad ogni forma di condivisione (prima ancora che di organizzazione) collettiva, basato quindi sull’orgoglio esibito e rivendicato per il proprio risentimento, di contro al tentativo, invece, di trovare una qualche piattaforma costruttiva di comunicazione che vada oltre la dimensione puramente virtuale. Ciò che chiamiamo “crisi della politica”, locuzione altrimenti sulfurea e priva di spessore, si colloca in questa faglia. Detto questo, vengono in mente alcuni pensieri sui giovani che stanno affollando le città del mondo in questi giorni. Il primo di essi è che non c’è troppo da illudersi riguardo al fatto che il movimento spontaneo duri oltre misura, tanto più se non dovesse trovare approdi politici; dopo di che, anche nel caso (improbabile) che si strutturi in qualcosa di non occasionale, divenendo “istituzione”, perderà comunque la sua spinta iniziale, oggi ancora al suo stato primigenio, quindi l’entusiasmo e la genuinità dei molti. Non è un suo vizio: semmai è parte della dialettica, per l’appunto, tra lo statu nascenti e la formalizzazione di qualsiasi dinamica collettiva. Poiché se questo transito non dovesse avvenire, allora tutto il patrimonio di lotte e rivendicazioni si perderebbe letteralmente per strada. La seconda riflessione rimanda al fatto che bisogna essere consapevoli che ogni generazione produce il suo movimento; anzi, i suoi movimenti: è un modo per affermare di esserci, per cercare di perforare la superficie e la scorza degli interessi strutturati, corporativi, delle generazioni precedenti. Si procede non solo per successione generazionale ma per conflitto intergenerazionale. È parte dell’evoluzione di ciò che chiamiamo mondo. Facciamocene una ragione, quand’anche dovessero dirci, a noi che troppo giovani non lo siamo più da tempo, che siamo diventati anacronistici. A ciò si aggiunge il fatto che il tema del Climate Change è in sé clamoroso, in quanto destinato ad investire, nella sua fenomenale complessità, tutto l’agire umano di qui in avanti: produzione, riproduzione, redistribuzione, consumo, smaltimento e riciclo. Non parla solo di merci e di ambiente ma è un interrogativo sui processi di mercificazione anche dell’umano. Il movimento giovanile può appassire ed essere archiviato ma l’agenda generazionale non potrà in alcun modo fare a meno del confrontarsi, in molti campi dell’esistenza, con il novero di temi e problemi che esso solleva. Poiché i veri effetti del mutamento climatico si misureranno sempre di più proprio sugli standard di vita quotidiana e, in immediato riflesso, sulla nozione stessa di sostenibilità umana della vita associata. I giovani di oggi sono il prodotto del post-Novecento. Sono nati durante e dopo la conclusione del secolo industriale, anche se (e soprattutto) sono tra quanti vengono e verranno sempre più spesso chiamati a sopportarne i costi effettivi. Non sono “post-ideologici”. Semplicemente, vivono e crescono in un ambiente (nel senso più ampio del termine) che non sa cosa farsene della vecchie forme di conflitto tra capitale e lavoro. L’uno e l’altro, infatti, continuano ad esistere ma con nuove vesti. L’incapacità di identificare le fisionomie e le identità del primo si accompagna all’impossibilità di trovare un collante per il secondo, sempre più segmentato, discontinuo, frammentato, disperso (e quindi meno identitario di quanto non lo fosse nel secolo trascorso). Il fatto che in un movimento che occupa le piazze vi siano un grande numero di individui che non necessariamente hanno bene in chiaro le ragioni per cui partecipano ad un “evento” collettivo, ossia visibile ad una platea plurale, nulla toglie alla validità delle istanze di principio che esso assume. Da sempre i fenomeni di natura politica – ossia, che investono le comunità in quanto tali su temi indifferibili, a ricaduta generalizzata – possono contare su un nucleo di consapevoli (le “avanguardie”; le élite; comunque i razionali rispetto allo scopo, che propendono poi per diventare i politici della situazione) e un numero di aderenti variabile ma la cui sostanza comune è quella di riconoscersi in qualcosa che è formulato, nei suoi tratti di fondo, da terzi. Nessuno è in grado, nella sua beata (e a volte anche un po’ beota, a giudicare da ciò che circola sui social network) solitudine, di identificare la vera cifra di significato e di rilevanza di processi sociali che lo chiamano comunque in causa, anche nella sua isolata individualità. Ognuno di noi, invece, se non si consegna ad un disperato e depressogeno solipsismo, vive invece un bisogno di rispecchiamento negli altri, sulla base di piattaforme di significato comuni: i movimenti dei giovani, da quando nell’età contemporanea si è definita una tale categoria, non solo generazionale, rappresentano la quintessenza di una tale necessità esistenziale. Ulteriore conssiderazione è che ogni movimento si divide e si ricompone sulla scorta del principio di partecipazione, per il quale il nucleo razionale delle rivendicazioni si incontra e si ibrida con il bisogno espressivo di “esserci”, di manifestare non solo per un’ “idea” o, al limite, per un bisogno materiale, ma anche per la voglia di esprimere la propria vitalità, il proprio presente (come tempo vissuto) che si incrocia con la propria presenza (come esistenza sociale). Queste esigenze si mischiano tra di loro: le une, quelle ludiche ed espressive, nulla tolgono alle altre, maggiormente rivendicative e razionali. L’autentico nucleo di un movimento, d’altro canto, è il punto di equilibrio tra etica dei convincimenti (cosa voglio) ed etica delle responsabilità (come ottengo ciò che voglio. Dopo di che, la vera soglia di divisione tra distinti a alternative visioni politiche, nei paesi a sviluppo avanzato, oltre ai temi della giustizia redistributiva e dell’uguaglianza partecipativa, sempre più spesso si collocherà tra quanti si riconosceranno nella rilevanza (e praticabilità) sociale di movimenti non identitari ma glocalizzanti e quanti, invece, continueranno a difendersi nella cittadella dell’individualismo proprietario, ossessionato dalla logica del possesso e del risentimento da spossessamento. Il tema della “glocalità”, ossia dell’inteconnessione tra una dimensione globale, – incentivata dallo sviluppo di un’economia dell’informazione e delle conoscenze assai sperequativa e poco, se non nulla, redistribuitiva – e la tutela dell’ambiente, inteso come territorialità e socialità, ossia come condizione imprescindibile per potere continuare a vivere in maniera accettabile, sarà sempre più importante. In realtà, una prospettiva di tale genere dovrebbe indurre molti ad interrogarsi su nuove forme di internazionalismo che non siano solo quelle erroneamente rivolte ad un passato che sta trascorrendo definitivamente. L’internazionalismo non è una religione ma una condizione, dove si coniugano le differenze individuali con i diritti collettivi. Siamo quindi ben oltre il vecchio “ecologismo” (spregiativamente definito da certuni come “giardinaggio”, mentre da altri inteso come una sorta di dottrina totalitaria da imporre alla collettività, anche coattivamente): i partiti italiani, come anche quelli europei, spesso depositari di una visione novecentesca dei rapporti sociali, sono tuttora incapaci di fare fronte a questo orizzonte. Tenteranno semmai di piegare alcuni slogan a proprio immediato beneficio elettorale. Fino ad oggi si è sopperito ad un tale state di cose, basato su un gravissimo ritardo culturale, mettendo la polvere sotto il tappetto e fingendo che l’insieme dei problemi fosse rinviabile a futuro incerto e comunque non preventivabile. Ma l’interconnessione tra mutamento ambientale, processi migratori, crisi fiscale dello Stato e ridimensionamento dei sistemi di Welfare, disequilibri demografici e transizioni sociali, trasformazione del lavoro e declino dei già fragili sistemi di giustizia, dovrebbe essere evidente, trasfondendosi in una piattaforma collettiva basata sul principio di sostenibilità delle scelte collettiva. Purtroppo, si è molto indietro e le resistenze, qualora ci si dovesse muovere in avanti, saranno molteplici e fortissime. L’orizzonte al quale si dovrebbe guardare, l’ambizione da nutrire, sarebbe quella di una cittadinanza sociale planetaria. Sembrerebbe di essere nel campo dell’utopia, ma non è propriamente così. Non si tratta infatti di un fenomeno giuridico in senso stretto ma un obiettivo molto complesso e composito, che parta dal presupposto che i confini dei bisogni di ognuno di noi non si fermano alle soglie di una frontiera politica ed amministrativa, interpellando semmai il resto della popolazione mondiale. Poiché se in Cina si producono merci a prezzi di molto più bassi, inevitabilmente il lavoro europeo ne subisce i contraccolpi. Come è già abbondantemente e ripetutamente successo. Un modo di ragionare attento ad un nuovo internazionalismo, che nulla ha a che fare con la “morte dello Stato-nazione” o con la fusione babelica di identità diverse, è l’esatto opposto dei sovranismi identitari, illusorie risposte che non solo occultano la vera natura dei problemi ma distolgono lo sguardo comune dalle crescenti diseguaglianze e dagli infiniti problemi che esse riproducono incessantemente, a partire dagli stessi fenomeni migratori incontrollati. L’unica catastrofe all’orizzonte sarebbe quella di non volere cogliere il senso di questi mutamenti, che ci chiamano in causa un po’ tutti, volenti o nolenti. Il movimento giovanile di questi giorni lo fa a modo suo, con gli strumenti che ha a disposizione. Anche con molta ingenuità. A volte irritante. È tuttavia un segnale molto netto. Ha una connotazione diversa dall’oramai vecchio movimento no global, ideologicamente centrato sulla lotta contro le multinazionali. Le scuole, il circuito dell’educazione e dell’istruzione, ancora una volta hanno svolto un ruolo strategico nel creare le condizioni per tradurre in pratica quelli che altrimenti sarebbero rimaste intuizioni marginali. Poiché nelle nostre società, a produrre cittadinanza, cultura dei diritti (e delle obbligazioni), socializzazione e reciprocità anche e soprattutto tra persone differenti, sono proprio i luoghi della formazione. L’unica vera dimensione collettiva che non solo sopravvive ma si rafforza dinanzi ai cambiamenti del nostro tempo.
Claudio Vercelli
(6 ottobre 2019)