“Ebraismo, un vestito
che non passa mai di moda”
Il rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni ha pronunciato nell’ora di Nei’là di questo Kippur 5780, nel Tempio maggiore della Capitale, le seguenti parole:
Alla fine di quaranta anni di deserto, in uno dei discorsi rivolti al popolo di Israele al termine del suo mandato, Moshè ricordò un evento miracoloso, piccolo, a confronto con tutti gli altri che erano avvenuti, ma non meno significativo. Nel deserto non c’era disponibilità di vestiti, e quelli che la gente indossava all’uscita dall’Egitto non si consumarono fino alla fine, per quaranta anni. Qui non si tratta solo di vestito materiale, c’è qualcosa di più profondo. Proviamo a capirlo in questo modo. Che cosa ci facciamo con un vestito consumato e passato di moda? Possiamo semplicemente buttarlo, oppure regalarlo (“ai poveri”, si diceva un tempo nelle famiglie un po’ benestanti), oppure usarlo soltanto dentro casa, perché fuori non è proprio il caso, oppure ce lo teniamo ancora nell’armadio anche se ingombra un po’, perché ci ricorda qualche bella occasione in cui l’abbiamo indossato, oppure lo conserviamo magari per una festa in costume a tema, tra qualche anno.
Il nostro rapporto con l’ebraismo qualche volta sembra essere quello con un vestito passato di moda. Ce ne liberiamo perché pensiamo che non serva più a niente, oppure lo affidiamo a qualche poveretto, che magari ci crede ancora, mentre noi liberi e illuminati non ne abbiamo bisogno, oppure lo conserviamo con un po’ di oggettistica ebraica che ricorda qualcosa di esotico e chic, le nostre origini ma non molto di più, oppure lo riserviamo per “feste mascherate”, esibizioni divertenti sul tema dell’identità. Ma se siamo qua questa sera, e per qualcuno forse questa è una delle poche occasioni all’anno in cui si affaccia in un Beth hakenèset, è proprio per ribadire, anche se non ce ne rendiamo conto, che il nostro ebraismo non è un vestito, usa e getta, un travestimento temporaneo, ma è parte della nostra essenza. E anche se fosse solo un vestito, quello che ci dice Moshè è che questo vestito non si logora, non passa mai di moda. Passa di moda il resto e noi siamo sempre qui: continuamente esposti, usati ed abusati, e sedotti da illusioni e tentazioni; da ideologie estranee, in passato; e oggi che non ci sono tante ideologie e tanti “-ismi”, semplicemente trascinati fuori appresso a qualcosa di altro che luccica. Come i carboni ardenti e attraenti, raccontati in un midràsh, che Moshè bambino e ignaro, messo alla prova dal Faraone, si portò alla bocca e lo resero balbuziente per tutta la vita. Ogni volta che parlava, e Moshè ha parlato tanto, si doveva ricordare e ricordare agli altri che era stato vittima di qualcosa che l’aveva attratto e bruciato. Questa sera siamo qui per riscoprire la nostra natura più autentica, per riallacciare e rinforzare un legame, per capire che questo è il centro e il resto è periferia, questo è il cuore che batte per farci vivere e senza il quale saremmo perduti.
In data civile oggi è il 9 ottobre. Un giorno triste per la nostra Comunità, e per questo luogo in particolare, che fu bersaglio di un attentato terroristico che fece decine di feriti e tolse la vita a un bambino. Sono passati da allora 37 anni, ma il nostro ricordo è ben vivo. Molto è cambiato da allora, nel quadro politico, nelle modalità di ostilità nei nostri confronti, nei modi di reagire della nostra Comunità. Mi interessa soprattutto come sia cambiata la nostra identità ebraica, quasi irriconoscibile rispetto ad allora, con una vitalità inedita, con una rete di sinagoghe nuove e frequentate, con occasioni moltiplicate di studio e di incontro. Siamo stati capaci di trasformare il lutto in gioia, il lamento in forza di costruire. È su questa direzione che bisogna continuare ad andare, con due priorità: investire sullo studio e sulla costruzione, prima di tutto di nuove famiglie. C’è una terribile incognita che pesa sul futuro di questa Comunità, come di tutte le Comunità dell’occidente. A proposito di mode e di modelli, siamo travolti e abbiamo recepito in pieno i modelli sociali e familiari prevalenti nel mondo che ci circonda e abbiamo ben pochi strumenti per contrastarli. Ma se non lavoriamo per inventarci qualcosa per opporci, il rischio per noi è grande. Dobbiamo impegnarci tutti per una comunità piena di vita che vede con un sorriso il suo futuro. Alcune Comunità italiane si compiacciono del loro ruolo di “presidio del territorio”, di rappresentanza e testimonianza storica. Sono cose importanti, se le si fanno nel rispetto delle regole, e che anche noi facciamo, ma non le cose che danno garanzia per il futuro. È su quello invece che bisogna lavorare.
La lista delle priorità è questa ma non trascura altri problemi e altre difficoltà. La solidarietà sociale, la tzedaqà, pilastro della Comunità, non è mai mancata da noi e continua ad esserci. Ma la rete dei rapporti spesso si disgrega, partendo già dall’interno delle famiglie. Sono sempre più evidenti la chiusura in sè stessi e l’aggressività, prima di tutto verbale. L’evoluzione tecnologica non ci aiuta, anzi fa da amplificatore nei canali dei social e moltiplica i danni. Un tempo si diceva che prima di parlare bisogna contare fino a dieci. Oggi bisogna farlo, magari contando fino a cento, prima di digitare sulla tastiera. Ne va della nostra dignità.
È il momento di ne’ilà, delle porte del tempio e del cielo che si chiudono, in attesa del giudizio. La nostra forza, lo stare insieme qui dentro e in ogni altro Beth hakenèset, la nostra determinazione, spero anche un po’ di silenzio durante le tefillòt, ci rendono fiduciosi che la firma sarà favorevole. A tutti un augurio sereno di
חתימה טובה, תזכו לשנים רבות
Riccardo Shemuel Di Segni, rabbino capo di Roma
(10 ottobre 2019)