Verso che deserto andare
Nel suo Devar Torah durante Shachrit di Kippur in Tempio a Firenze, prima del Sefer, rav Gadi Piperno ha ricordato il rito dei due capri e la scelta tra essi (uno da sacrificare al Signore ed uno inviato verso il deserto, simbolicamente carico dei peccati di tutto Israele), ed in parallelo alcune tra le tante scelte, spesso sofferte, di cui è intessuto tutto il libro di Bereshit.
Spesso, in queste antinomie, ricorrente era il deserto come desolazione e perdizione: Kain va in terra di Nod ovvero terra di vagabondaggio dopo l’omicidio del fratello Hevel (Bereshit 4: 16); la sprezzante Agar in fuga dalla padrona Sarai si reca presso una fontana d’acqua nel deserto (Bereshit 16: 7) e di nuovo con il figlio idolatra Ishmael, che cercava di corrompere il piccolo fratellastro Yitzhak, viene allontanata ‘errando nel deserto di Beer Sheva’ (Bereshit 21: 14. Questo suo figlio crescerà poi sempre più lontano dall’insegnamento di Israele, sino a divenire completamente altro (Bereshit 21: 21) e a dare vita ad un popolo contiguo spesso in contesa, come spesso accade tra fratelli rivali. Così, anche dalla disputa per la primogenitura tra Yaakov ed il rosso fratello Esav/Edom nasceranno due strade diverse, la prima quella di Israele e la seconda quella del nemico Edomita il quale discende dalla terra desolata di Esav, come ricorda il profeta Malakhi (‘ho fatto dei suoi monti una desolazione’, 1:3).
Il deserto, pensavo ascoltando, è non solo desolazione, ma fonte di cambiamento: Moshe va a Midian dopo l’uccisione dell’egiziano crudele con i suoi fratelli schiavi (Shemot 2:15) e nel deserto gli parla il Signore attraverso un roveto ardente (Shemot 3:1-2), dal deserto di Paran partono gli esploratori (Bemidbar 13:3), e proprio qui si era insediato già Ishmael e si rifugerà in seguito David.
Il cambiamento più alto è quello offerto da Kadosh BaruchHu con il dono della Torà, avvenuto proprio nel deserto perché, secondo l’interpretazione midrashica, questa terra non appartiene a nessun popolo e quindi tutti sono liberi di recepire la Torà e farla propria, ed inoltre per ascoltarne il messaggio bisogna essere ricettivi, metaforicamente senza padrone, proprio come lo è il deserto (Bemidbar Rabbà 1:7). Fare ed ascoltare richiede anche di essere umili, come lo era la montagna dove Moshé ha ricevuto le dieci parole, il più basso monte di tutti: il Sinai, così come HaShem si era mostrato non in una lussureggiante e rigogliosa natura ma in un umile cespuglio (Talmud, Sotà 5a). Nel deserto poi si è soli, senza fonti di sostentamento, con la necessità di affidarsi completamente al Signore – il quale manderà la manna e l’acqua. Il deserto è un silenzioso nulla, in cui è possibile ascoltare e costruire – dentro di sé, come anche precarie capanne quali quelle che abbiamo iniziato ad innalzare uscito Kippur, e che ci ricordano la precarietà della vita nel deserto e la necessità di non considerare, parafrasando Primo Levi, le nostre sicure e tiepide case come una dovuta ovvietà.
Il deserto dunque è sì la desolazione dove è mandato il capro per Azazel investito dei peccati del popolo, ‘nella terra crudele e in un deserto orrendo’ leggiamo nella ripetizione dell’Amidà del Musaf di Kippur, ma al contempo può essere luogo umile di opportunità, di svolta e di miglioramento. Un’altra scelta è qui: sta a noi decidere verso che deserto andare.
Sara Valentina Di Palma