Machshevet Israel
L’urbanesimo e il sacro
Dati l’unicità e lo speciale status halakhico di Gerusalemme ci si aspetterebbe di trovare nella tradizione di Israele un mito di fondazione della città, magari esaltato da una festa liturgica. Ma per quanto centrale sia (stato) il Tempio nella storia antica degli ebrei e mai sopiti siano la nostalgia e il desiderio di ritorno nella ‘città della santità’ – ‘ir ha-qodesh – il calendario ebraico non ha mai registrato e celebrato uno Jom Jerushalaim, un giorno di/per Gerusalemme, fino a pochi anni fa. I rabbanim hanno stabilito il 9 di Av come giorno di lutto per la perdita del Tempio e la distruzione della città, non una festa per la sua fondazione o la sua conquista militare da parte di Davide (l’osservazione è di Yeshayahu Leibowitz in materia di feste ebraiche). Ciò induce a pensare il rapporto tra città e santità, tra polis e sacro, tema antico al centro di un imminente convegno promosso dal Centro Interuniversitario di Studi sul Simbolico. Come il giudaismo declina quel rapporto? Il caso Gerusalemme è unico o paradigmatico, quasi un modello, per altre città? E soprattutto cosa significa ‘città santa’ in prospettiva ebraica?
Se partiamo dal dato biblico la prima evidenza è la qualifica riservata a Caino di “costruttore di una città” (Bereshit/Gn 4,17). La prima città che compare nel testo biblico, il cui nome è Enoch, è fondata da un fratricida, da un uomo che ha alzato la mano contro un altro essere umano. La sua discendenza annovera proprietari di bestiame e fabbri, nonché musicisti: l’ossatura di ogni città, con le sue attività economiche e di relax. Il testo biblico non va oltre, ma quanto basta a farci collocare il tema ‘urbano’ nell’orizzonte della laicità, nella sfera del profano. Occorre tener conto di questa premessa per apprezzare il fatto che Mosè ordina non di fondare una città santa ma, in Bemidbar/Nm 35, di designare città-asilio (tre in terra di Canaan e tre fuori) ovvero città che servano come rifugio agli omicidi involontari, per metterli al riparo dal goel ha-dam, dal ‘vendicatore del sangue’, il parente della vittima che esige giustizia (o vendetta, nel senso originario e per nulla negativo del termine). La struttura urbana di queste città è descritta con molti dettagli nel Talmud, trattato Makkot, ed è commentata da una famosa ‘lettura talmudica’ di Emmanuel Levinas. Perché, chiediamoci, per chi uccide un uomo involontariamente non basta un tribunale normale, che deve trovarsi in ogni città? Sappiamo che istituire tribinali – amministrare la giustizia – è un precetto di civiltà che il pensiero rabbinico immagina comandato a tutti i benè Noach, a tutta l’umanità. Cosa significa dunque la città-asilo? Nella cristianità per secoli conventi e chiese servirono da ‘asilo’ ai trasgressori, anche di colpe gravi, e chi vi si rifugiava non poteva essere toccato dal braccio secolare. (Ma per errori teologici gli eretici venivano spesso condannati dentro i conventi e consegnati alle autorità politiche perché eseguissero le sentenze di morte). In epoca moderna le ambasciate servono al medesimo scopo (sebbene i regimi totalitari come quello nazista non abbiamo affatto rispettato né ambasciate né chiese).
La città-asilo o di rifugio sembra affermare – è la tesi di Rabbi Jitzchaq in Makkot 10a – il principio del valore assoluto della vita, anche per chi la toglie agli altri se ciò avviene preter-intenzionalmente, ossia senza volerlo, per accidente. E’ la situazione di chi, dice Levinas, è oggettivamente colpevole ma soggettivamente innocente (rebus giuridico ma anche religioso), nella quale rischiamo di rientrare, per una ragione o per un’altra, po’ tutti: se non altro perché non facciamo mai abbastanza per fermare le ingiustizie sociali, le disuguaglianze economiche, l’inquinamento ambientale, ecc. E’ qui, secondo il filosofo lituano-francese, che entra in gioco la città del terzo tipo – né ordinaria né d’asilo – ma santa, la città da cui esce la Torà, Sion/Gerusalemme. Certo, anche questa città può essere distrutta, dicono le fonti, persino dalla leshon ha-ra’, dall’omicidio della malelingua; o dal non mandare i propri figli a scuola; o dai conflitti tra scuole diverse che non si rispettano l’una con l’altra… Ma è anche la città dove lo studio della Torà funge da “estrema coscienza” contro tutti quei mali che la potrebbero distruggere. E’ la città che fissa i parametri più alti della vita e dunque della santità, nella quale, come dice un maniera sorprendente il Talmud, un giorno di studio vale più di mille sacrifici nel Tempio.
“A Gerusalemme, conclude Levinas, è promessa un’umanità secondo la Torà, capace di superare le profonde contraddizioni delle città-rifugio approdando a un’umanità nuova, migliore di un Tempio. Il nostro testo sulle città-rifugio ci ricorda o ci insegna che l’aspirazione a Sion, che il sionismo, non è un nazionalismo o un particolarismo che si aggiunge ad altri; che esso non è nemmeno semplicemente la ricerca di un rifiìugio. Che esso è la speranza di una scienza della società e di una società pienamente umana. E questo a Gerusalemme, nella Gerusalemme terrestre, e non fuori di ogni luogo, in pii pensieri”.
Massimo Giuliani, Università di Trento
(11 ottobre 2019)