Luzzatto e i suoi detrattori
Un popolo come gli altri. Il titolo dell’ultimo libro di Sergio Luzzatto sembra scelto apposta per aprire una discussione.
Non siamo mai stati un popolo come gli altri. Siamo certamente stati e siamo persone come le altre, ma popolo come gli altri forse sarebbe stata nostra aspirazione esserlo, benché non ci sia mai stato consentito. Siamo stati determinati dagli altri almeno quanto ci siamo sforzati di determinare noi stessi.
Il titolo del libro deriva evidentemente da una seria convinzione, e Luzzatto infatti si interroga sull’equivoco indotto da chi distingue la storia ebraica ‘dalla storia di tutte le altre culture del mondo, di tutti gli altri popoli della terra [considerandola] unica nel suo genere, grande e terribile, la storia del Popolo eletto’. Non sono uno storico, e non oso quindi disquisire con Sergio Luzzatto, ma è lecito allora chiedere, quanto meno, come mai più di duecento delle trecento pagine di cui è costituito il libro siano dedicate alla Shoah e ad argomenti a essa connessi. Se ne ricava la forte impressione (magari anche sbagliata) che il libro sia dedicato ‘Al popolo della Shoah’, più che a un ‘popolo come gli altri’. La stessa divisione tripartita (Prima – Durante – Dopo, con una sezione dedicata a Primo Levi inserita fra il ‘Durante’ e il ‘Dopo’) sembra dare conferma definitiva dell’intento programmatico. Davvero ‘un popolo come gli altri’? Qualche cosa andrebbe chiarito o meglio definito. È onesto chiedersi se siano stati molti i popoli espulsi e dispersi in massa dalle terre in cui abitavano, perseguitati non in quanto individui ma in quanto appartenenti a un preciso ‘popolo’, massacrati nei secoli a più e più riprese, e in tutta Europa. E quanti altri popoli siano stati calunniati, vituperati e oppressi per la loro religione, esclusi da professioni, diffamati e aborriti per presunte anomalie fisiche, segnati nell’abito per tenerli separati, convertiti a forza, e infine segnati nel corpo per essere poi macellati come bestie. Mi si accuserà di essere un fautore della storia lamentosa. No, sono solo un fautore della memoria storica e del giudizio obiettivo sul passato, e non ho mai amato, peraltro, la storia compiacente, eufemizzata solo per appagare l’orecchio e la coscienza altrui. Come a dire: ‘ i polacchi ci hanno sempre amato’. E, sia chiaro, non sono interessato a trarne conclusioni di sorta, lungi da me voler dare alla storia ebraica una lettura religiosa o escatologica. Nei fatti, poi, Luzzatto non è molto lontano dal mio sentire, considerando che la storia del popolo sembra, nel suo libro, storia della Shoah, la più immane tragedia che ci abbia mai colpito. E considerando anche che la conclusione del suo libro è tutta focalizzata sulla esperienza israeliana, come se quella fosse (e certamente non lo è) la logica conclusione e la necessaria derivata della Shoah; come se non vi fosse nel vasto mondo altro ebraismo che incarni ideali e prassi del popolo ebraico.
Sulla scorta del grande Amos Oz, Luzzatto si pone un interrogativo che suona di lana caprina, se sia cioè vero che ‘non sono stati i precetti a conservare gli ebrei; ma sono gli ebrei che hanno deciso di conservare i precetti […] in virtù di milioni di decisioni personali prese da milioni di ebrei per decine di generazioni, ebrei che hanno scelto di mantenere la propria identità’. Qui il cane si mangia la coda, perché è forse lecito supporre che tanti milioni di singoli ebrei abbiano deciso di mantenere nei secoli la propria identità perché ispirati – solo per proporre una possibilità – da un testo, o dal contenuto di quel testo, cercando di tutelare, così, nel loro costituirsi collettività coesa e omogenea, la propria precaria sicurezza. Non ho la presunzione di conoscere la verità, e spero che nessun altro pretenda di averla. Credo, anzi, che a dirigerci verso la verità non possa essere una visione ideologica dell’ebraismo o un’altra. Rimane come dato di fatto che il popolo ebraico, malgrado tutto e tutti, si è conservato fin qui.
C’è poi un altro spunto, leggermente più polemico, ripreso da Luzzatto nella sua premessa, là dove rispolvera le aspre polemiche suscitate a suo tempo dalla pubblicazione di Pasque di sangue, di Ariel Toaff, e dalla recensione che Luzzatto stesso ne fece. Bisogna riconoscere che ha ragioni da vendere Luzzatto quando rivendica allo storico il diritto di fare ricerca e di fare storia senza ostacoli e senza censure preventive. Lo affermo in tutta serietà e con piena consapevolezza. È anche vero, tuttavia, che riletto a distanza di anni e di polemiche e senza l’emotività prodotta dalla sorpresa del momento, ‘Pasque di sangue’ continua a lasciare alquanto perplessi per la mancanza di nessi necessari fra le prove addotte e le fonti citate, da un lato, e la conseguente deduzione di fatti, dall’altro. Le premesse non conducono cioè necessariamente alle azioni e agli eventi che si vorrebbero dimostrare. Così come la logica delle dichiarazioni estorte sotto tortura sta sempre in bilico fra credibilità e inaffidabilità delle stesse, come in un circolo vizioso senza soluzione di continuità. Il metodo storico impiegato non offre credibilità assoluta. E tuttavia, Luzzatto ha tutte le ragioni del mondo a pretendere che gli storici non vengano giudicati e processati per le verità documentate che espongono. Ma dovrà riconoscere che è invece assolutamente lecito giudicare (se non proprio processare) la corretta applicazione di un metodo storico.
Ora, chi scrive non è uno storico, e non pretende, a sua volta, di raggiungere verità storiografiche. Ciò che si può azzardare, tuttavia, è una richiesta di impiego della logica che permetta al fruitore (lettore) di riconoscere un nesso necessario, credibile e non pretestuoso, fra le premesse e le deduzioni, un nesso obbligato per il quale le congetture non si trasformino arbitrariamente e miracolisticamente in prove provate.
Con tutto ciò, non c’è intervento sulla Shoah in cui Luzzatto non si mostri sensibile quant’altri mai alle vicissitudini e alle tragedie del popolo ebraico. Sensibile e partecipe nella ricerca della verità storica in tutti gli scritti che, man mano, recensisce. Nell’ultima parte del libro, poi, il tono cambia, e a ragion veduta. È la parte più coinvolgente, la parte che vede la nostra generazione testimone della storia nel suo farsi. È il tempo in cui non ci si sente più semplici osservatori di un passato in cui nulla può più essere cambiato, in cui nessuna tragedia può più essere evitata, in cui nessuna voce può più levarsi per cercare di influenzare la realtà in corso. È invece il tempo in cui – giusto o sbagliato che sia – si sente il peso della corresponsabilità della storia, in cui si sente doveroso, ove la coscienza lo richieda, affermare le proprie riserve sulla gestione del presente o sulla deriva di un ideale.
Qui la posizione di Luzzatto cambia e la sua voce esprime il dissenso. Nelle sue pagine, Luzzatto è critico nei riguardi della politica israeliana degli insediamenti e della politica israeliana nei riguardi dei palestinesi. La sua posizione non è né infrequente né, a mio modo di vedere, proibita o scandalosa. È la posizione di chi pensa con il suo cervello, ebreo o non ebreo che sia, e che esprime il suo pensiero in piena libertà. Si potrà dire, al più, che è una posizione prevenuta, o che non considera tutti i fattori e i giochi della politica internazionale nel quadrante mediorientale. È una posizione tranquillamente discutibile e contestabile, ma non è certo censurabile o blasfema. Vi sono argomenti che sono soggetti a facili stigmatizzazioni quando non a scomuniche, e la critica alla politica di un governo israeliano è uno di questi. Vi siamo abituati, anche se si vorrebbe che il pensiero fosse per tutti l’arena in cui mettere in atto la libera espressione delle idee e testimoniare l’ebraico spirito del dialogo e del confronto. Ma non è così, e la cosa rende aspro anche il rapporto fra ebrei ed ebrei. Io non credo che si possa giudicare la posizione di Luzzatto. La si può non condividere, le si possono contrapporre argomentazioni e dati e fatti. Ma non la si può zittire. Non si ha il diritto di farlo se non proclamando l’autoritarismo della parola sulla parola, la prevaricazione di una dittatura che non è di regime ma è politica e ideologica. A conculcare, fra le altre, la libertà di pensiero sono stati al pari fascismo e comunismo, e che si tratti di confino, o di campi di concentramento o di gulag o di cliniche psichiatriche, cambia il metodo, ma non cambia il risultato. Si pensa con qualche turbamento alla damnatio memoriae che rende impronunciabile il nome dell’avversario, o ai volti cancellati dalle foto di gruppo.
Dunque le posizioni di Luzzatto vengono aspramente criticate, e questo ci sta, fa parte del gioco e del diritto alla libertà di pensiero. Ciò che a Luzzatto si può effettivamente rimproverare è una mancanza di cautela nell’uso del linguaggio, troppe funzioni emotive nel suo stile, che non è lo stile dello storico. Luzzatto cade sullo stile perché le pagine su Israele, è vero, sono caratterizzate da un linguaggio spesso emotivo, non propriamente scientifico, o da storico. Del resto, gli articoli che costituiscono il libro nascono dalle pagine dei giornali e il loro piglio è giornalistico, non scientificamente controllato. È su questo che l’Autore viene criticato e colto in fallo. Nella forma della sua scrittura si insinua un’acredine nei riguardi di Israele che stride con il linguaggio della critica storica. Anche se Luzzatto potrebbe precisare che il suo biasimo e lo stile pungente sono rivolti a un governo e non allo stato.
Ovvio trovarsi allora di fronte ad articoli che contestano Luzzatto fino a definire il suo un odio viscerale nei confronti di Israele. A questo punto, anche il critico più infastidito dalla scrittura di Luzzatto si ferma e si ritrae, sconcertato, confuso. Perché il dibattito e la contestazione dei contenuti, e diciamo pure anche dello stile, non può contemplare una diagnosi dei sentimenti, non può imputare un’accusa di ‘odio’ nei riguardi di chicchessia, persona o stato. C’è un limite da non superare anche nella critica politica. Perché l’accusa di ‘odio’ rivolta a qualcuno addita quel qualcuno al disprezzo della gente, lo consegna a sua volta all’odio degli altri. L’accusa di odio produce odio. Il presunto odiatore merita, evidentemente, di essere odiato a sua volta. Si mette in moto così un circolo vizioso che suscita non dibattito e scontro dialettico, ma odio, rancore, violenza verbale. E, si spera, non altro. È la diffusione incontrollata dell’odio cui ci hanno abituato infaustamente i social media.
Lo storico, in conclusione, dovrebbe limitarsi a fare lo storico e a farlo bene, usando dello storico anche il linguaggio. Non è compito dell’intellettuale, d’altro canto, sollecitare i sentimenti più biechi e oscuri dell’animo umano, non è dell’intellettuale giocare con i bassi istinti dei lettori per influenzarne il sentimento. È dell’intellettuale, invece, aiutare a condurre ragionamenti secondo logica, esponendo idee che concorrano a indirizzare verso una coscienza umanitaria, che si pieghi ai motivi della convivenza, del confronto, del dialogo. Dialogo anche aspro, se del caso. La parola ‘odio’ dovrebbe non comparire nel suo vocabolario. La si dovrebbe lasciare all’uso del polemista, e del politico che con l’odio degli altri gioca pericolosamente per istigare gli animi ad altro odio e ad altra violenza.
Potrei anche sbagliarmi, ma se fare il mestiere dello storico significa non tanto scavare nei fatti e cercare di collegare cause e conseguenze quanto emettere implacabili sentenze e inappellabili attribuzioni di sentimenti, allora sono assai lieto di essermi occupato per tutta la vita di finzioni e di una umanamente titubante critica letteraria.
Dario Calimani, Università di Venezia