Lo sport e il nazionalismo
I giocatori della nazionale di calcio turca fanno il saluto militare per festeggiare le vittorie in solidarietà all’azione militare in Siria. La Cina sospende la programmazione delle partite delle squadre NBA che si sono permesse di twittare in favore di Hong Kong. L’allenatore Pep Guardiola, barcellonista doc, polemizza contro la sentenza che ha condannato i leader secessionisti. Insomma, fra le tante cose successe in questa settimana, torna in auge il doloroso rapporto fra sport e politica. Lo sport, che dovrebbe rappresentare più di ogni altro valori universali in grado di superare differenze fra popoli, si infrange spesso contro barriere nazionali ad ogni latitudine. Si tratta di una vecchia questione, che ha portato anche al ritiro delle medaglie a quegli atleti americani che alzavano il pugno sul podio olimpico a sostegno deo black panters sul finire degli anni ’60. Si diceva che sport e politica devono rimanere separati. Le medaglie saranno riassegnate agli atleti quasi 30 anni dopo, quando la causa antirazzista per cui lottavano quegli atleti è stata riconosciuta come giusta. Nel 2008 la Cina ottenne la proibizione di trasformare la propria Olimpiade in un palco per il sostegno al Tibet: è la stessa cosa? Discorso complesso, ma il discrimine c’è: se lo sport è l’affermazione di principi universali, chi manifesta per essi (come nel 1968) non può essere paragonato a chi si mette al servizio di visioni nazionalistiche che quei valori contraddicono.
Davide Assael, Presidente Associazione Lech Lechà
(16 ottobre 2019)