Premi Nobel

baldacciNon sono un critico letterario e perciò non entro nel merito dei Nobel per la letteratura assegnati nei giorni scorsi alla polacca Olga Tokarczuk e all’austriaco Peter Handke. Ma questo non vieta una riflessione sulla singolare «conventio ad excludendum» nei confronti degli scrittori israeliani che dura dal 1966, quando fu premiato Shmuel J. Agnon, il padre, insieme a Haim N. Bialik, della letteratura ebraica moderna.
Da allora Israele ha dato al mondo una grande quantità di scrittori di altissimo livello, tradotti in moltissime lingue, apprezzati universalmente. Tre di essi hanno raggiunto una fama indiscussa, che ha visto d’accordo non solo milioni di lettori ma anche la critica più rigorosa: Amos Oz, David Grossman, Abraham Yehoshua. Ma se il conferimento del Nobel vuol non solo riconoscere il valore di uno scrittore ma anche mettere in evidenza la vitalità di una letteratura nazionale, occorre sottolineare che insieme ai tre maggiori sono conosciuti e apprezzati decine di altri scrittori israeliani, come Assaf Gavron, Ayelet Gundar-Groshen, Yoram Kaniuk, Yehoshua Kenaz, Etgar Keret, Michael Sami, Eshkol Nevo, Meir Shalev, Zeruya Shalev, solo per citarne alcuni, che sono stati tradotti in molte lingue e, in particolare, sono stati pubblicati in Italia da numerosi editori: basta scorrere il catalogo della collana “Israeliana” della Giuntina per avere un’idea adeguata dell’importanza che ha oggi la letteratura israeliana..
E allora perché questo ostracismo, soprattutto quando si assiste – contrariamente a quanto accadeva in passato, quando il Nobel veniva assegnato a scrittori di indiscusso valore – alla premiazione di oscuri autori che vengono dimenticati subito dopo l’assegnazione del premio e che hanno pubblicato in lingue minoritarie, comprese da pochissimi specialisti? Si è detto che questo è stato, negli ultimi anni, il criterio prevalente nell’assegnazione del premio, quello di far conoscere lingue e letterature diverse da quelle dei circuiti linguistici prevalenti. Ma, allora, perché non usare questo criterio anche nei confronti dell’ebraico?
Il detto popolare vuole che a pensare male si fa peccato ma che spesso ci si azzecca. È difficile sottrarsi all’impressione che quella data, il 1966, quando fu premiato Agnon, costituisca una specie di muro e che dall’anno successivo, il 1967, l’anno della guerra dei Sei giorni, abbia prevalso, nei criteri adottati dai signori di Stoccolma, quello del «politicamente corretto» piuttosto che quello della valutazione basata sull’onestà intellettuale.

Valentino Baldacci

(17 ottobre 2019)