Una precarietà stabile
Sukkot grandi e piccole, sobrie o decorate, private o comunitarie (e anche una di kibbutz). Senza dubbio le differenze tra l’una e l’altra non mancano, eppure quando ripenso a tutte le sukkot che ho visto nella mia vita ho l’impressione che le somiglianze siano decisamente più evidenti e significative. Anche le immagini che si trovano cercando “sukkah” in internet sono per la maggior parte non troppo diverse l’una dall’altra, come se seguissero un modello ben preciso: un’uniformità che mi sembra andare molto al di là dei vincoli posti dall’halakhah e che appare quasi sorprendente per una festività che rappresenta simbolicamente proprio la precarietà. Però in effetti non è detto che precarietà debba essere sinonimo di varietà, anzi, forse le sukkot hanno una forma abbastanza costante e riconoscibile proprio per esorcizzare il senso di precarietà che la festa trasmette. E così, mentre le sinagoghe e gli altri edifici comunitari fissi subiscono modifiche, ristrutturazioni, tinteggiature, riorganizzazioni degli spazi, vediamo una capanna che dura solo otto giorni ma che spesso è sempre la stessa da un anno all’altro, e viene collocata esattamente nello stesso posto in cui è stata collocata per decenni, in molti casi anche con le stesse decorazioni. Resta comunque, come deve essere, una costruzione precaria, ma è una precarietà tranquillizzante.
Anna Segre