I pochi posti a sedere
L’impegno a favore del popolo curdo è inprescindibile, inderogabile e insindacabile. Tanto per usare parole perentorie dinanzi all’afasia surreale, a tratti grottesca, di buona parte delle cancellerie europee e al surrealismo di quella americana (rispetto alla quale è forse bene iniziare a ragionare sul fatto che il progressivo isolazionismo selettivo peserà sempre di più nei tempi a venire). Verrebbe amaramente da dire che è impresa vana cercare di attualizzare la memoria del passato, al netto delle innumerevoli differenze tra vicende storiche distinte, se poi il all’atto concreto, nel mezzo di una crisi ingenerata da un’aggressione proditoria, il panorama della politica, non solo nazionale, è quello di un gioco allo scaricabarile tra finti pesci lessi, dinanzi alla violenza che attraversa, di nuovo, la regione mediorientale. Appoggiare i curdi nelle loro istanze autonomiste espresse nel Kurdistan siriano (l’indipendenza è ancora altro discorso, benché siano un popolo tradito dal colonialismo europeo) è una necessità che non risponde solo a criteri di equità morale e giustizia riparativa ma anche ad interessi geopolitici specifici. I quali, ovviamente, trovano l’assenso degli uni (noi con Israele siamo tra questi) e il rifiuto di altri (non solo della Turchia neo-ottomana e panturanica di Erdogan, per intenderci). Poiché in politica c’è sempre un dare ed un avere che non soddisfa tutti ma dal quale si deve ritagliare, e poi ricavare, il materiale diritto all’esistenza dignitosa delle collettività. Nella storia la vera differenza tra vincitori e vinti – al netto del gioco incrociato tra candidi moralismi e insolenti cinismi, così come dei concreti differenziali di potere – sta spesso nel dotarsi (in caso inverso, nel non riuscire a dotarsi) di un potenziale di autocoscienza collettiva (chi siamo, cosa vogliamo, cosa possiamo concretamente fare per ottenerlo e con quali risorse?), da affidare quindi ad élite in grado di tradurlo in atti concreti, per l’appunto in fatti politici. Se non si ha l’uno né le altre, il treno della storia passa invano. Quand’esso si è allontanato, sarà allora inutile esibire il proprio biglietto, a quel punto già scaduto. L’invito, in altre parole, è a fare i conti con i dati di fatto. La questione curda, da un punto di vista etico e morale, può trovare molti punti di contatto con tante altre storie similari, non solo in Medio Oriente ma nel mondo intero. L’empatia nei confronti delle istanze di autonomia dei curdi (che al loro interno, in quanto popolo, hanno una molteplicità di posizioni, non sempre coincidenti tra di loro: è la democrazia, bellezza!) non si legittima attraverso il richiamo ad astratti principi di giustizia (in sé condivisibilissimi ma che debbono poi contemperarsi con la concretezza delle tante ingiustizie di fatto, oltre che con le sproporzioni tra gli attori in campo) e neanche con il diffuso innamoramento per singole cause militanti, a fronte poi della indifferenza, se non dell’ostilità, verso vicende omologhe ma che non raccolgono il medesimo favore. La società curda, laddove si presenti come pluralista e laica (il che per nulla vuol dire che non abbia ampie componenti religiose), è quanto oggi di meglio ci si offra contro le pretese egemoniche e imperialistiche di una molteplicità di soggetti che agiscono in Medio Oriente, facendo polpette di ciò che a loro non interessa. È una democrazia militante. Fatto che non la pone al riparo dal commettere errori e dal dovere assumersi responsabilità. A partire dalla lotta armata di alcune frange, che ha colpito anche dei civili incolpevoli in Turchia. Un tema veramente spinoso, quest’ultimo. Poiché non basta professarsi contro di essa per stare dalla “parte giusta”. Nella storia, la violenza politica non è una eccezione; il più delle volte è purtroppo la norma. Ma è tanto più intollerabile e quindi esecrabile quand’essa venga perpetrata da Stati che la usano non solo per reprimere le minoranze ma anche per allineare la maggioranza all’interno di un regime militarizzato, dove pluralismo ed opposizione nazionali sono repressi. L’appoggio ai curdi, quindi, non può esimersi dal sostegno a quelle parti di società civile turca che lottano, tra innumerevoli difficoltà, contro l’erdoganismo. Fenomeno, quest’ultimo, che lega un patriottismo cieco e fideistico al fondamentalismo sunnita di ritorno, alla persecuzione degli oppositori, alla cristallizazione dei poteri, al familismo di un sultanato pseudodemocratico che, quando cadrà, rivelerà sicuramente anche le sue compromissioni in calcoli di interesse di ordine economico. Così come non può risolversi nella sola simpatia, che in alcuni si fa innamoramento cieco, nei riguardi delle immagini delle giovani miliziane con il fucile in mano. Troppo facile, altrimenti, dire di sì a quella che non è politica ma solo iconofilia romantica. Soprattutto quando ci troviamo a migliaia di chilometri di distanza, nella nostra personale “safe zone”, fatta di telecomandi e monitor. Erdogan non sta “sterminando” i curdi; sta distruggendo la loro autonomia politica, civile e morale. Con l’ennesima guerra di invasione, giustificata come lotta al terrorismo. Assumiamoci quindi le nostre responsabilità, sapendo che le scelte di campo raccolgono gli assensi degli uni ma anche il rigetto di altri. Se per questi ultimi siediamo dalla parte del “torto”, ce ne faremo una ragione. Come si dice in questi casi, ci troveremo comunque in buona compagnia.
Claudio Vercelli
(20 ottobre 2019)