L’anima ciliegia
“Paganina aveva un’anima ciliegia. Le succedeva così. Non appena cominciava a desiderare qualcosa con tutta se stessa, subito le spuntava accanto un altro desiderio, solo in apparenza diverso, e invece legato strettamente al primo. Come due ciliegie, insomma, di quelle che nascono accoppiate e poi le bambine si mettono a cavallo delle orecchie”. Tra le coppie di ciliegie di Paganina ce n’é una che emerge in quasi ogni pagina del racconto di cui è la protagonista: l’amore per Guglielmo, eroe della guerra partigiana, e per il partito comunista italiano (Pci), a cui negli anni della Resistenza e in quelli del dopoguerra molti guardavano come al progetto di un’Italia più giusta, scrigno della speranza e di un futuro nuovi.
In L’anima ciliegia, l’ultimo libro di Lia Levi, pubblicato da HarperCollins, vengono narrati momenti della storia d’Italia seguendo il percorso della protagonista Paganina, nata negli anni Trenta da un padre ateo pronto ad abbracciare con entusiasmo sempre nuove battaglie e da una madre solo in apparenza subordinata al marito. Anche se il punto di vista è quello di Paganina, quello che leggiamo è un racconto corale, in cui è la famiglia a occupare il centro della scena. Vediamo così gli effetti sui tanti fratelli e sorelle prima, su figli e nipoti poi, dell’attentato a Togliatti e della “legge truffa”, del ventesimo congresso del Pcus e dei fatti d’Ungheria di poco successivi; e poi degli anni della contestazione e di quelli di piombo, passando attraverso la stagione delle campagne referendarie che hanno contribuito a cambiare il volto della società italiana, come quella sul divorzio per la quale emerge il disinteresse del Pci a battersi davvero fino in fondo (non è cosa che importi a contadini e operai, si argomentava frettolosamente).
L’anima ciliegia procede per scene quasi come un film: una galleria di immagini di interni famigliari che fanno pensare per esempio a “Fanny e Alexander” di Ingmar Bergman, “La famiglia” di Ettore Scola o “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana. Le fotografie, forse non a caso, sono anche trasformate in espediente narrativo perché ne viene descritta una al termine di ogni capitolo, con la funzione di riassumerlo e suggellarlo con un richiamo visuale immediato, oppure di alludere a qualcosa di diverso ma legato alla narrazione come una seconda ciliegia.
Il ritmo è quello di un racconto più che di un romanzo, a parere di chi scrive, sia grazie alla scelta del tempo verbale prevalente (l’imperfetto) e al largo impiego del discorso indiretto, sia a una sintassi paratattica, con frasi brevi e poche subordinate, che rende la lettura molto scorrevole. La prosa di Lia Levi, in questo forse più ancora che negli altri suoi libri, fa pensare al movimento morbido di onde che si allungano e si contraggono a ritmo su una spiaggia a dolce pendio.
Per alcuni aspetti la famiglia di Paganina ricorda quella tratteggiata da Natalia Ginzburg nel suo capolavoro Lessico famigliare, in cui è la famiglia della scrittrice torinese a occupare la scena. In entrambe troviamo una narratrice circondata da una sorella e tanti fratelli che sospetta di non avere speciali qualità, l’impegno politico e intellettuale, le stravaganze ma anche lo spessore di un padre fuori dall’ordinario, un marito ammirato e perciò amato, i figli. Lo stile delle due scrittrici è invece molto diverso: la prosa di Natalia Ginzburg è un torrente pieno di rapide, secche, scogli aguzzi che rompono i flutti e provocano zampilli di schiuma (ripetizioni, storpiature, invenzioni linguistiche, accostamenti aspri); quella di Lia Levi, come detto, è fatta invece di onde lunghe e regolari.
Per tanti anni a Paganina sembra di affrontare la vita come la Garance di “Amanti perduti”, lo straordinario film d’amore diretto da Marcel Carné: “lei era Garance, lei era la sognatrice che attraversa la realtà in punta di piedi, incantata e libera di scegliersi da sola la propria morale…”. Orientata dall’amore per il marito Guglielmo, “stella fissa della sua esistenza”, Paganina sa di “vivere per una causa” che porta il nome di lui. È questa la scelta più importante che Paganina ribadisce ogni giorno, proprio lei che senza averlo voluto si trova circondata quasi per caso da tanti parenti. Eppure, implacabile, arriva il giorno in cui la causa piano piano si assopisce e poi svanisce. In questo momento, mentre a Berlino smontano pezzo dopo pezzo il muro che divideva la città e i sessant’anni segnano l’inizio di una nuova stagione della vita, con i figli ormai sposati e lontani, si affaccia per Paganina “la stessa malinconia di quando ti accorgi che l’estate sta finendo”. Il suo passo non è più quello leggero e sicuro di Garance, ma quello incerto e affondato nei ricordi dei protagonisti di “C’eravamo tanto amati”, il film in cui Scola ha rappresentato la fine delle illusioni di chi, nella gioventù di molti anni prima, come Guglielmo aveva combattuto in montagna i tedeschi. Il posto dell’amore è occupato dall’affetto perché “non c’erano più eroi nella sua vita”. Scocca l’ora del divorzio, anche se soltanto negli animi.
Giorgio Berruto