Machshevet Israel Parrhesia, prassi ebraica
“Parrhesia è, in poche parole, il coraggio della verità di colui che parla e si assume il rischio di esprimere, malgrado tutto, l’intera verità che ha in mente, ma è anche il coraggio dell’interlocutore che accetta di accogliere come vera la verità oltraggiosa da lui sentita”. Ecco come lo storico delle idee e filosofo Michel Foucault definisce la parrhesia, termine greco che entra nel lessico cristiano da un lato come certezza di essere ascoltati da Dio e dall’altra come coraggio di predicare la propria verità agli altri, a dispetto delle conseguenze che ne possono venire. Vale dunque come sincerità e audacia, come franchezza nel dire quel che si ritiene essere il giusto e il vero. Tale attitudine viene declinata anzitutto in chiave etico-politica (come fa Socrate ad Atene o Giordano Bruno a Roma), specie nei rapporti con il potere (principe o stato o chiesa che stia). Foucault ne fece il tema dell’ultimo corso che tenne al Collège de France nei mesi invernali del 1984, poco prima di morire. A chi detiene il potere sentire ‘tutta la verità’ spesso dà fastidio e l’esprimersi senza giri di parole può risultare pericoloso al ‘parrhesiasta’.
Tema affascinante. Peccato che in questa dotta disamina archeologico-epistemica il filosofo francese sia sia limitato alle fonti greche e abbia ignorato – abbia scelto di ignorare – le fonti ebraiche, il Tanakh e l’oceano della letteratura rabbinica. Non sapendo l’ebraico si è precluso un intero universo, a detrimento della sua ricerca. Nei testi dell’ebraismo, biblico e post-biblico, avrebbe trovato un’infinità di esempi di parrhesia esercitata davanti a re e regine, a sacerdoti e autorità, a singoli e a popoli, e naturalmente davanti a Dio (“il re dei re dei re”). Il primo pensiero corre naturalmente ai profeti di Israele: Samuele che parla con dura franchezza al popolo per dissuaderlo dal sottomettersi a un re ‘come fanno tutti gli altri popoli’; Nathan che affronta David ha-melek per contestargli la sua condotta adultera e omicida; Eliahu che si scaglia contro Acav e Izevel [Gezabele], e deve fuggire per non incorrere nella vendetta della ragina (dopo aver sfidato e vinto gli accoliti di Ba‘al)… per non citare che i maggiori. Ma forse che Abramo è meno ‘parrhesiasta’ di questi profeti quando ardisce parlare al Giudice di tutta la terra e ricordarGli che non è secondo giustizia punire i giusti al pari dei malvagi? O Moshe davanti a Faraone? O Esther davanti ad Achashverosh?
Certo, ci sono anche le critiche non costruttive, disapprovate e punite: come quelle pettegole di Aronne e Miriam o come quelle demagogiche di Corach, Dathan e Aviram, tutte rivolte a Moshe. Esse non sono censurate dai redattori biblici, anzi, sono narrate come paradigmi di parrhesia negativa perché, se così si può dire, “non sono per amore del Cielo” e non vanno imitate. Ma il parlar schietto e diretto sembra un tratto specifico della vita comunitaria ebraica, quasi a raccogliere l’imperativo profetico dabru emet, che significa sia ‘dire il vero’ sia ‘parlare in mondo sincero e onesto’. Il verso di Zaccaria dice: “Ecco le cose che farete: parlerete con sincerità gli uni con gli altri e secondo verità e pacatezza darete giudizi nelle vostre città” (8,16). Certo, come in ogni cosa dev’esserci una misura: l’eccessiva schiettezza può sconfinare in mancanza di kavod per il prossimo e in accusa, o addirittura in aggressione verbale. Trovare il limite tra i due atteggiamenti è chokhmà, è saggezza. La parrhesia è virtù ebraica solo quando sta nel mezzo tra l’ipocrisia (o l’insincerità) e la strafottenza (l’insulto e il vilipendio). In Italia e in Israele tutti fanno appello alla parrhesia e si compiacciono di dire le cose come stanno ma pochi sono virtuosi nel senso che sanno rispettare quel limite. Proprio perché le parole possono uccidere come armi, meglio un’opinione sincera proferita in tono pacato e nella balbuzie piuttosto che un proclama di certezze gridate e bradite come un gladio.
Foucault, nella sua definizione, include anche “il coraggio dell’interlocutore” che deve accogliere le parole vere e sincere che pure suonano oltraggiose. Per il detto popolare, la verità fa male, nel senso che brucia alla coscienza di chi l’ascolta, dato che nella nostra medietà/mediocrità viviamo meglio senza le critiche altrui. Presupposta la sincerità e l’obiettività – ovvero la non faziosità e la retta intenzione – criticare è sempre rischioso, per chi critica come per chi è criticato, e il meccanismo sociale, per funzionare, necessita della bi-direzionalità. La parrhesia, in altri termini, è una responsabilità condivisa, che se ben esercitata può stimolare un cambiamento, una svolta. Per dirla in ebraico, può mettere in moto un processo di teshuvà, idea rara se non assente nel mondo greco, soggiogato invece dal concetto di destino e di fato. Ecco perché la parrhesia nel giudaismo, come coraggio di dire e ascoltare la verità, non è mai un’accusa o una condanna senza possibilità di cambiamento o di espiazione. Non è solo foucaultianamente ‘cura di sé’, è soprattutto ‘cura di noi’.
Massimo Giuliani