Il diritto di disconnettersi

anna segreÈ finito il periodo delle feste. Finite le maratone di correzione in quattro giorni scarsi su sette, finite le raffiche di mail da mandare di corsa tra il sabato sera e la domenica pomeriggio, finiti i complicati incastri di tutti gli impegni. Abbiamo davanti a noi un semestre quasi completo di settimane fatte di sei giorni feriali tra cui distribuire equamente fatiche e appuntamenti. Purtroppo, però, con la fine delle feste resta limitato al solo Shabbat anche il diritto alla disconnessione: per i prossimi sei mesi non avremo più scuse per non rispondere alle mail, per declinare gentilmente gli inviti a far parte di questa o quella commissione o a partecipare a questo o quel progetto, per mantenere libere le ore libere.
Ma davvero l’insegnante migliore è quello che non si disconnette mai se non quando entra in classe a fare lezione? Davvero la reperibilità continua è una prova di efficienza? Davvero chi si ritaglia qualche spazio per sé deve essere ritenuto meno affidabile?
Ci sono molti mestieri e molti ruoli che non permettono mai di staccare sul serio; quello dell’insegnante, se non in rarissimi casi, non dovrebbe essere tra questi. Tant’è che bene o male di anno in anno arriviamo alla fine di Tishrì sani e salvi, seppure un po’ affannati. Mi pare piuttosto che la tendenza a non staccare mai e la diffidenza verso chi si permette periodi di disconnessione siano una brutta abitudine di questa nostra epoca affannata. E sono certa che questo non accade solo per gli insegnanti; anzi, temo che in altre professioni le cose stiano anche molto peggio. Tishrì ci dimostra che un paio di giorni di disconnessione, anche ripetuti tre o quattro volte nello stesso mese, non fanno crollare il mondo, né per noi stessi né per chi ci circonda. Forse è una lezione utile per tutti.

Anna Segre, insegnante

(25 ottobre 2019)