Il diritto di disconnettersi
È finito il periodo delle feste. Finite le maratone di correzione in quattro giorni scarsi su sette, finite le raffiche di mail da mandare di corsa tra il sabato sera e la domenica pomeriggio, finiti i complicati incastri di tutti gli impegni. Abbiamo davanti a noi un semestre quasi completo di settimane fatte di sei giorni feriali tra cui distribuire equamente fatiche e appuntamenti. Purtroppo, però, con la fine delle feste resta limitato al solo Shabbat anche il diritto alla disconnessione: per i prossimi sei mesi non avremo più scuse per non rispondere alle mail, per declinare gentilmente gli inviti a far parte di questa o quella commissione o a partecipare a questo o quel progetto, per mantenere libere le ore libere.
Ma davvero l’insegnante migliore è quello che non si disconnette mai se non quando entra in classe a fare lezione? Davvero la reperibilità continua è una prova di efficienza? Davvero chi si ritaglia qualche spazio per sé deve essere ritenuto meno affidabile?
Ci sono molti mestieri e molti ruoli che non permettono mai di staccare sul serio; quello dell’insegnante, se non in rarissimi casi, non dovrebbe essere tra questi. Tant’è che bene o male di anno in anno arriviamo alla fine di Tishrì sani e salvi, seppure un po’ affannati. Mi pare piuttosto che la tendenza a non staccare mai e la diffidenza verso chi si permette periodi di disconnessione siano una brutta abitudine di questa nostra epoca affannata. E sono certa che questo non accade solo per gli insegnanti; anzi, temo che in altre professioni le cose stiano anche molto peggio. Tishrì ci dimostra che un paio di giorni di disconnessione, anche ripetuti tre o quattro volte nello stesso mese, non fanno crollare il mondo, né per noi stessi né per chi ci circonda. Forse è una lezione utile per tutti.
Anna Segre, insegnante
(25 ottobre 2019)