Rojava
Sabato a Milano ci sarà una marcia di solidarietà con i popoli del nord della Siria che stanno subendo un’aggressione militare inaccettabile. Esprimere ad alta voce la solidarietà e chiedere alle istanze politiche di intervenire è un dovere.
Quello che sta accadendo nel Rojava da due settimane, aggiunto al riemergere prepotente di un terrorismo che colpisce luoghi di culto e semplici cittadini inermi (ricordiamo, ultimamente, Halle) costituisce una vera emergenza. Si tratta di dinamiche molto gravi, che in una società democratica come la nostra non possono lasciare spazio al sentimento dell’indifferenza e non possono generare “silenzio” per una serie di motivi. Primo: la nostra società è democratica non per un dono divino, ma perché la generazione dei nostri padri e nonni ha lottato ed ha versato sangue per la sua realizzazione. Il nostro dovere è quello di difenderla nei suoi principi per assicurare un futuro pacifico e libero alle generazioni future. Nel concreto questo significa che non possiamo tacere quando i più elementari principi di convivenza e di solidarietà umana vengono violati. Secondo: è di certo vero che la storia “non si ripete”. Diverse sono le situazioni, differenti i contesti e gli esiti. Tuttavia esistono alcune dinamiche psicologiche e politiche che si innescano fatalmente di fronte a situazioni di emergenza e che vanno contrastate con forza. Quando dal settembre del 1938 il regime fascista avviò l’emanazione dei provvedimenti razzisti contro la minoranza ebraica la risposta della società italiana fu una e una soltanto: silenzio e indifferenza (oltre a una applicazione pedissequa dei provvedimenti). “Non capita a me quindi, in fondo, posso non immischiarmi”. Si tratta di un principio comportamentale ampiamente diffuso che si è ripetuto nella storia e che si ripete anche oggi. Il problema è che, oltre ad essere un comportamento immorale, semplicemente non funziona. Non immischiarsi, voltare la testa dall’altra parte, evitare di intervenire e di far sentire alta la voce di dissenso, significa autorizzare chi detiene il potere a comportamenti sempre più estremi, volti a perseguire finalità che nulla hanno a che vedere con il benessere dei cittadini e con la sostanza stessa delle regole democratiche. Terzo: il silenzio della società democratica autorizza chi guida le istituzioni ad assumere comportamenti indifferenti o di mero interesse che costituiscono l’esatto contraltare (sul piano delle politiche internazionali) del silenzio indifferente e un po’ vigliacco del singolo cittadino. In altri termini, se noi oggi non protestiamo, se non facciamo sentire alto il nostro dissenso e non denunciamo l’attacco turco contro l’esperienza democratica che si è sviluppata negli ultimi anni nel nord della Siria, o non gridiamo forte il nostro allarme per il crescendo della minaccia terroristica che è anche figlia della lunga crisi mediorientale, noi autorizziamo chi gestisce le nostre istituzioni a compiere scelte inaccettabili. Com’è ad esempio inaccettabile che nessun alto rappresentante delle istituzioni europee abbia anche solo ipotizzato di andare a Kobane a fare quel che nel 1995 fece il presidente francese Mitterand a Sarajevo. Oppure è inaccettabile che non vengano immediatamente ritirati i militari italiani e spagnoli inviati dalla Nato per gestire sistemi di protezione missilistica dello spazio aereo turco, la cui presenza non è messa in discussione perché riguarderebbe altre dinamiche. In definitiva, è inaccettabile che le istanze politiche che ci governano stiano silenti e si limitino a generici comunicati di condanna. Perché lo fanno? Perché si comportano in questo modo? In parte perché il silenzio della società democratiche permette loro di rimanere indifferenti. Si tratta di un test decisivo. Se la nostra società tace, se non pungoliamo le istituzioni affinché reagiscano con forza, significa che abbiamo perso. E la nostra sconfitta produrrà in breve tempo il collasso della democrazia come la conosciamo oggi.
Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC
(25 ottobre 2019)