Smartphone e oligarchia
Dopo le ripetute fiammate delle trascorse primavere arabe, succedutesi dal 2011 in poi, una parte del Medio Oriente torna in piazza, questa volta insieme al Sud America. Il nucleo della protesta è costitutito da giovani e studenti, spesso appartenenti a quelle classi medie che vengono chiamate a pagare i costi di una trasformazione economica che ingrassa i già ricchi mentre impoverisce la piccola e media borghesia. Fino ad oggi le proteste non hanno assunto caratteristiche etnico-settarie, esprimendosi semmai come un moto generazionale che, tuttavia, raccoglie l’assenso anche dei meno giovani. Il trittico che lega il rifiuro della diffusa corruzione, delle misure di austeritità calate dall’alto e della crescente diseguaglianza tra ceti e gruppi, si lega all’implicita domanda di libertà che è sempre un ingrediente dell’opposizione ai governi tendenzialmente oligarchici di cui Beirut è un esempio. La situazione economica del Paese dei cedri è, d’altro canto, drammatica, al netto del grande problema dei rifugiati siro-iracheni. I dati ci parlano di un rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo pari al 150% (il quarto al mondo, in ordine di grandezza, venendo prima il Giappone con il 238%; la Grecia, con il 182%; le Isole Barbados, con il 157% mentre l’Italia occupa un poco onorevole quinto posto, con il 132%). La crescita economica è stagnante, il tasso di disoccupazione è del 25% sulla forza lavoro potenzialmente attiva ma arriva al 40% nel caso dei giovani. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’intenzione da parte del governo di tassare le chiamate WhatsApp, insieme all’ipotesi di un generalizzato rincaro delle imposte sui consumi di qui al 2022. L’ennesima giro di vite fiscale, questa volta su un sistema di comunicazioni molto utilizzato, poiché la telefonia ordinaria presenta invece uno dei tariffari più esosi al mondo (in un regime di duopolio delle utenze, controllate da due compagnie statali che di fatto stabiliscono da sé il prezzo dei servizi), ha sollevato una protesta corale che adesso va ben oltre la ragione che l’ha inizialmente scatenata, riconnettendosi invece a quelle domande di equità economica e di giustizia sociale che sono completamente disattese da un sistema politico immobile e paludato. Il quale, si guarda bene anche solo dall’avviare qualche riforma, a parte le manovre e gli aggiustamenti finanziari necessari per compensare i ripetuti deficit di bilancio. Ben sapendo che se procedesse altrimenti ciò comporterebbe, in tutta probabilità, l’inizio della sua fine. In tale modo però, anche l’accesso al finanziamento di una dozzina di miliardi, previsto dalle organizzazioni internazionali per aiutare il Paese, è al momento precluso. Il sommarsi delle sperequazioni è tuttavia tale da creare una sorta di effetto di non ritorno, prefigurando un potenziale collasso a venire. Se non delle istituzioni senz’altro della società, che ha già vissuto la lunga guerra civile, tra il 1976 e il 1989. L’1% della popolazione, infatti, possiede un quarto della ricchezza nazionale mentre più della metà dei libanesi si divide il 10% del reddito totale. I servizi e i beni pubblici, se si fa eccezione per le aree a maggiore densità urbana, sono spesso non solo deficitari ma ai limiti dell’inesistenza, anche nel campo strategico della distribuzione idrica e dell’elettricità. La moneta nazionale è in costante svalutazione. Non di meno, il premier Saad Hariri è uno degli uomini più ricchi non solo del Libano, posizionandosi al 522° posto nella classifica dei magnati planetari stilata periodicamente da Forbes. Avendo e coltivando interessi proprio nei campi strategici delle comunicazioni e delle fonti di energia. Al pari di altri paesi, non solo del Medio Oriente, Hariri rappresenta a modo suo un ceto familistico di potenti monopolisti, che usano la politica per meglio amministrare anche e soprattutto i propri affari. È agevolato in ciò dalle tante divisioni etnico-confessionali che attraversano il Libano e dal loro riflettersi in segmentazioni claniche e fazionalizzazioni settarie. Davanti al clamore delle proteste il capo del governo ha fatto parziale marcia indietro sui provvedimenti finanziari maggiormente punitivi, promettendo invece “riforme” per un controvalore di 3 miliardi e mezzo di dollari. Tra le misure, anche il richiamo al ridimensionamento degli emolumenti corrisposti ai politici per lo svolgimento delle loro funzioni, insieme all’immancabile promessa di “lottare contro la corruzione”. Tuttavia, l’ingrippamento del circuito economico affonda le sue ragioni nella cristallizzazione del sistema politico, basato sul peso delle appartenenze confessionali, che determinano una certosina divisione dei poteri tra gruppi ristretti (secondo di accordi di Taef, siglati una trentina di anni fa per porre termine alla guerra civile). La sfiducia nelle autorità di governo e dello Stato si sta però traducendo, in queste settimane, anche in una minore disponibilità nel continuare a dare credito illimitato e incondizionato ai capi della propria fazione etnoreligiosa. La crisi di legittimità, infatti, è trasversale e mette a dura prova l medesimo tempo i rapporti di affiliazione e quelli di clientela. Cosa da ciò ne possa derivare, al netto di fantasione (ed improbabili) soluzioni di ordine “rivoluzionario”, oppure di un riformismo che avrebbe comunque vita dura dinanzi agli interessi corporati, ossia alle reciprocità di gruppo, alle alleanze oligarchiche, è difficile dirlo. Manca, in questo come in altri casi, un soggetto politico trasversale capace di raccogliere la protesta giovanile, convogliandola, al di là del suo spontaneismo, verso esiti profittevoli. Tuttavia, le piazze libanesi piene di giovani manifestanti sembrano ricordare quelle del ’68 di Praga. Certo, il governo in carica non è una dittatura ma è non meno vero che la domanda di una svolta radicale, quand’anche dovesse rimanere insoddisfatta, com’è altamente improbabile, esprime qualcosa di più di un solo rifiuto, richiamando semmai quel bisogno di prospettiva e di speranze che, invece, a molti giovani, non solo libanesi, è al momento impedito.
Claudio Vercelli
(27 ottobre 2019)