Odio e conformismo corrono in rete,
risposte ebraiche a fenomeni moderni

Il Baal Shem Tov, fondatore del chassidismo, insegna che a ciascun individuo, quando nasce, viene assegnato un certo numero di parole che potrà utilizzare nel corso della propria vita. Pronunciata l’ultima, la persona lascia questo mondo. Si tratta di un chiaro invito a pesare ogni parola che diciamo o scriviamo, a chiederci se ciò che stiamo per dire sia veramente significativo (tanto da morire per dirlo). E nell’epoca in cui riversiamo fiumi di parole su social network e la rete, l’insegnamento del Baal Shem Tov potrebbe essere un buon primo argine contro quella che su queste pagine è stata più volte definita come “demenza digitale”: l’abuso della tecnologia e dei social network, così come definito dal neuroscienziato Manfred Spitzer. Demenza che ha, tra le altre cose, il volto di quei profili social che quotidianamente attaccano la senatrice a vita Liliana Segre, analizzati dall’Osservatorio Antisemitismo del Cdec e al centro delle cronache degli ultimi giorni. Una vicenda che ci ricorda quanto l’uso delle parole d’odio online rappresenti un fenomeno inquietante e dilagante. Per contrastarlo in Italia è nato l’Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori della Polizia di Stato (Oscad), che opera nel segno della collaborazione tra forze dell’ordine, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e lo stesso Osservatorio Antisemitismo, che riceve la maggior parte della segnalazioni al suo indirizzo e attraverso l’Antenna antisemitismo, con l’obiettivo di attivare interventi mirati sul territorio seguendo l’evoluzione delle vicende discriminatorie segnalate. Altre misure sono state suggerite in questi giorni, come l’idea di provare ad abolire l’anonimato in rete: una proposta contestata dalla maggioranza degli esperti e oramai già naufragata. “Chi scrive messaggi di odio online lo fa col suo nome perché vuole ricevere attenzione, like e condivisioni”, afferma Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica alla Statale di Milano e protagonista in una passata edizione di Bookcity di un incontro organizzato dalla redazione di Pagine Ebraiche proprio su questo tema. “L’odio on-line è diventato una valuta di scambio, porta consenso e chi dovrebbe arginarlo, il mondo della politica e della stampa, non lo fa, anzi lo sfrutta”, aveva spiegato allora Ziccardi. E durante lo stesso incontro il filosofo Giulio Giorello aveva aggiunto un altro concetto ovvero come su internet prenda forma “in maniera devastante il conformismo”: ovvero le persone cercano nel mondo virtuale chi condivide le proprie idee, formano gruppi che ne attaccano altri o colpiscono i singoli, e non accettano le opinioni diverse dalle proprie. Pessime abitudini, si ricordava su Pagine Ebraiche (maggio 2016) in un approfondimento legato al libro di Spitzer, da cui inevitabilmente non è immune il mondo ebraico: “Nell’immenso flusso di espressioni affrettate e demenziali che portano incompetenti, irresponsabili ed esibizionisti a esprimere solennemente qualunque sciocchezza, viene seriamente minacciato il principio ebraico di esprimersi come se l’interlocutore si trovasse in nostra presenza. E non dilaga solo l’odio o il negazionismo che minaccia ogni cultura minoritaria e in particolar modo le realtà ebraiche e Israele. Ma trova spazio anche in ambienti ebraici la tendenza a mettere nero su bianco avventate espressioni di cyberbullismo e di cybermobbing, offese personali, vergognose manifestazioni di intolleranza che al momento opportuno chiunque fra gli addetti ai lavori potrà recuperare e utilizzare a proprio comodo”.
“Credo che l’elemento fondamentale sia quello educativo rispetto all’uso dei social – sottolinea a Pagine Ebraiche rav Michael Ascoli, interrogato sulle risposte ebraiche ad alcuni di questi temi – C’è sicuramente una tendenza molto preoccupante a condividere cose sin troppo banali, a porre troppo spesso se stessi al centro dell’attenzione e a sostituire l’immagine al parlato o allo scritto, perfino nel modo di redigere un testo, facendo ricorso all’emoticon, allo sticker, al meme. In qualche modo c’è una minaccia alla capacità di espressione verbale che l’ebraismo secondo me non può vedere di buon occhio”. Il rav sottolinea inoltre come la velocità dei social network spingano le persone a cadere nell’idea che la scrittura immediata, che risposta istantanea sia un atto necessario. “La tentazione di intervenire rapidamente è un tranello. Il monito presente nelle nostre fonti è quello di ponderare bene le cose prima di dirle. Il midrash riporta che quando Dio rivelò a Moshé la Torah fece delle interruzioni in modo che Moshé avesse modo di ragionare sulle cose che aveva sentito. Se vale per Moshé tanto più vale per ognuno di noi. In più dovremmo imparare, prima di scrivere qualcosa, a chiederci perché lo facciamo: se voglio ottenere solo una serie di like o per screditare qualcuno allora forse ho un problema con me stesso. E personalmente sono profondamente convinto che ci sia un problema con se stessi alla base di questa ricerca continua del consenso”.
Sul tema della ricerca del consenso, anche attraverso l’odio, e del conformismo evocati da Ziccardi e Giorello il rav propone invece tre esempi: “Uno, quello legato alla definizione di popolo ebraico come ivri: secondo il Midrash Abramo (il primo ebreo) sta me’ever hanahar, dall’altra parte del fiume, è colui che sta dall’altra parte, capace quindi di opporsi al pensiero della maggioranza. Il popolo ebraico, come ricorda rav Jonathan Sacks, ha nella sua essenza proprio l’idea di protestare: Abramo contro l’idolatria, il popolo ebraico contro le nazioni potenti dell’epoca, contro le ingiustizie”. Altro esempio: “il popolo ebraico, per come è descritto nella Torah, è un’infima minoranza quindi pretendere che il consenso abbia una rilevanza, che se un’opinione è maggioritaria debba essere di per sé giusta fa torto alla nostra stessa storia. Anche perché altrimenti ci saremmo assimilati da tempo”. Rispetto poi a chi sceglie di rinchiudersi nelle proprie cerchie – virtuali e reali – per alimentare le proprie convinzioni e cancellare quelle diverse, rav Ascoli porta l’esempio di rav Yochanan e Resh Lakish. “Nella Gemara si racconta di come fossero molto amici, sempre in discussione fra di loro. A un certo punto Resh Lakish tragicamente muore e rav Yochanan quasi impazzisce. Per consolarlo, altri maestri gli inviano un rav e gli dicono ‘questo è uno molto preparato, vedrai che non ti farà rimpiangere Resh Lakish’. E ad ogni insegnamento che rav Yochanan pronuncia, questo nuovo rav gli sa citare una fonte che conferma le sue parole. Rav Yochanan si adira per questo e spiega: “che io ho bisogno di qualcuno che mi dica che ho ragione? Io ho bisogno di un Resh Akish che mi metta in discussione, che sappia trovare in ogni cosa che dico obiezioni a cui poi devo provare a rispondere”. Non c’è ragione di discutere per sentirsi dire che si ha ragione, dunque. Sarebbe una perdita di tempo e di parole. Come perdono il loro tempo gli odiatori sul web citati all’inizio, a cui la risposta più efficace arriva da uno dei loro bersagli preferiti. “Gli haters perdono il loro tempo, è molto prezioso, non si torna mai indietro neanche di un attimo. Questi lo sprecano, il mio consiglio è di non sprecarlo – le parole di Liliana Segre, commentando la notizia degli attacchi online contro di lei – Ogni minuto va goduto e sofferto, bisogna studiare, vedere le cose belle che abbiamo intorno, combattere quelle brutte, ma perdere tempo a scrivere a una 90enne augurandole la morte …tanto c’è già la natura che ci pensa”.

Daniel Reichel

(Nell’immagine, due vignette pubblicate dal New Yorker e firmate da Peter Steiner)