La deportazione nel lager
e quel trauma mai rimosso
Per molti anni ho messo da parte le immagini del viaggio che ha cambiato la mia vita, relegandole in una zona oscura della memoria. È necessario, spiegano gli psicologi. Come quelle del corpo, anche le ferite dell’animo non vanno toccate o possono riaprirsi, procurando un inutile dolore. Ma il mio trauma è tutt’altro che rimosso. Per tutto il tempo è rimasto nel suo cantuccio, la terra di confine che in ciascuno di noi separa i ricordi dalle emozioni. Qualche anno fa ne ho avuta la prova. Con mia moglie e due coppie di amici sono salito su un treno diretto a Nova Gorica. Avevamo organizzato la vacanza con largo anticipo ed ero contento, mi aspettavano momenti piacevoli. Ma non appena fui a bordo, scoprii un dettaglio che mi terrorizzò. C’era l’aria condizionata e i finestrini non si potevano aprire. Quell’idea di chiuso mi riportò immediatamente le immagini della partenza da Fossoli. In un istante rividi i convogli dei deportati, sbarrati, privi di aria e di luce. Mi sembrò di rivivere il viaggio che per milioni di persone fu di sola andata e a me ha distrutto la famiglia, la giovinezza e la pace interiore. La vista mi si appannò, la mente si confuse. Non ero più alla stazione Termini, in partenza per un viaggio di piacere. E intorno a me non vedevo sconosciuti passeggeri, ma mia madre e le mie sorelle. Stavamo andando ad Auschwitz. La sensazione che provai era insopportabile, dovevo scendere subito dal treno. Cominciai ad arretrare, pian piano guadagnai l’uscita. Gli amici non capivano, rimasero di sasso vedendomi andar via senza un motivo, una spiegazione. Mia moglie capì. Senza dire una parola, prese la sua borsa e mi seguì lungo il binario.
(Tratto da “Sono stato un numero. Alberto Sed racconta” di Roberto Riccardi, editore Giuntina)
(3 novembre 2019)