Talmud, patrimonio di tutti
In libreria il trattato Qiddushìn
Prosegue con la pubblicazione del trattato Qiddushìn (Matrimonio) l’opera di traduzione del Talmud babilonese realizzata nel quadro del protocollo siglato nel 2011 tra Presidenza del Consiglio dei Ministri, MIUR, CNR e Unione Comunità Ebraiche Italiane – Collegio Rabbinico Italiano.
Curata dal rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma e presidente del consorzio che ha in carico la traduzione, l’opera sarà in libreria dal 7 novembre (l’editore è Giuntina). Un nuovo prezioso tassello di conoscenza di cui ora anche il pubblico italiano potrà beneficiare, che sarà presentato in anteprima a Venezia, domani, in occasione della conferenza “Il progetto Talmud. Tecnologia in favore del dialogo multiculturale” alla Venice International University.
L’incontro, che avrà inizio alle 17, sarà moderato dal giornalista Roberto Papetti. Ad intervenire sarà con un saluto l’ambasciatore Umberto Vattani, presidente della Venice International University. Parleranno poi rav Roberto Della Rocca, rabbino capo di Venezia; Paolo Lucca dell’Università Ca’ Foscari; rav Gadi Piperno, rabbino capo di Firenze e quality manager del progetto di traduzione; lo scrittore e storico Riccardo Calimani. Una riflessione conclusiva sarà invece proposta da Clelia Piperno, direttore del progetto di traduzione.
“Il Talmud – spiega il rav Di Segni nell’introduzione di Qiddushìn – dedica quasi un intero Ordine, Nashìm, e ben cinque trattati al diritto matrimoniale: Yevamòt del levirato; Ketubbòt si occupa delle scritture matrimoniali e dei doveri coniugali; Sotà dell’infedeltà coniugale; Ghittìn dei divorzi e Qiddushìn delle modalità di stabilimento del vincolo coniugale. Nella sequenza dei trattati Qiddushìn viene dopo Ghittìn, e non al contrario come dovrebbe essere nell’ordine temporale e logico, forse perché quell’ordine potrebbe sembrare di cattivo augurio: quindi meglio prima trattare i divorzi e poi i matrimoni”.
Il termine qiddushìn, che dà il nome a questo trattato, significa letteralmente consacrazioni. “La radice quf-dàlet-shin – prosegue il rav – indica la separazione, il sacro, la qualità speciale, il destinare. Qiddushìn è un plurale che assume un’accezione particolare nella forma con finale n; al singolare, qiddùsh indica alcuni riti di consacrazione, come il lavaggio di piedi e mani che era richiesto ai Sacerdoti quando entravano a prestare servizio nel Santuario, o la consacrazione del Sabato e delle feste che si compie nella mensa domestica su un calice di vino. Al plurale qiddushìn è riferito solo al vincolo nuziale ed è un termine di uso rabbinico, assente nella Bibbia”.
Quando la Bibbia vuole indicare il legame tra un uomo e una donna usa infatti l’espressione “essere di”, oppure, se vuole indicare il primo tipo di vincolo, la radice àlef-resh-sin da cui il sostantivo di uso rabbinico erusìm, sempre al plurale. “I rabbini – continua il rav Di Segni – introdussero e fecero prevalere il termine qiddushìn per sottolineare l’aspetto sacrale del vincolo rispetto a quello puramente giuridico, avendo come riferimento il concetto di heqdèsh che era l’atto con il quale un offerente dedicava un bene al Santuario: da quel momento il bene diventava esclusivo e inutilizzabile a scopi profani”.
Sia erusìm che qiddushìn, sottolinea il rav, sono atti compiuti dall’uomo che lega o consacra a sé una donna: haìsh meqaddèsh o mearès, l’uomo “dà i qiddushìn” nel senso che l’uomo lega a sé la donna e la donna li riceve, nel senso che accetta il legame con atto volontario; la donna che li ha ricevuti è detta mequddèshet o meorasà. Tradurre questi termini in italiano è però problematico “perché i concetti di ‘fidanzamento’, ‘matrimonio’, ‘nozze’, non corrispondono esattamente alle strutture giuridiche del matrimonio secondo le regole rabbiniche”.
Queste infatti prevedono un processo in due tempi. “Il primo, dei qiddushìn o erusìm in cui l’uomo lega o consacra a sé una donna, e da quel momento scatta il divieto di adulterio, ma la coabitazione ancora non è consentita”. Quindi, precisa il rav, è una situazione più impegnativa del fidanzamento, ma ancora non è un matrimonio completo. Il secondo tempo, detto nissuìm, dalla radice nun-sin-àlef, che indica invece il portare, “una sorta di deductio ad domum degli antichi romani, in cui la sposa veniva portata a casa del marito, che sanciva l’inizio della vita coniugale”. Ai tempi del Talmud tra la prima e seconda procedura potevano passare mesi o anni. Da qualche secolo però le due procedure sono in sequenza immediata e questo, osserva il rav, “rappresenta una delle evoluzioni delle forme del matrimonio ebraico”.
Una istituzione che, si ricorda, “ha una storia di trentacinque secoli e si è definito ed evoluto con sue caratteristiche specifiche nel contesto di culture differenti”.
La discussione che si svolge nel trattato da queste settimane in vendita, giuridica e non storica, cerca di definire i termini del rito in rapporto alle fonti bibliche.
Con il tipico meccanismo talmudico, la discussione si estende a una serie di argomenti collegati per associazione e analogie.
(4 novembre 2019)