Enzo Sereni, tra Italia e Israele
Abbiamo letto un volume che ha subito fatto, meritatamente, il giro di giornali e TV: Mirella Serri, Gli Irriducibili – I giovani ribelli che sfidarono Mussolini, Longanesi, 2019. L’autrice è brava assai, con un curriculum importante e ha all’attivo altre opere rilevanti e ben scritte, anzi, benissimo. Su quest’ultima fatica, possiamo soltanto ripeterci: scritta bene, lettura quindi scorrevole, che fa rivivere il passato. Troviamo invece un motivo di dubbio laddove questo prezioso volume indugia, si sofferma e sviluppa le sue storie attorno ad Enzo Sereni e ad Ada Sereni.
Fra Enzo ed il fratello Emilio, vi era una grande cesura ideologica, notoriamente, Enzo era sionista ed Emilio era comunista (cfr. Per non morire – Enzo Sereni – vita, scritti testimonianze, a cura di Umberto Nahon, edito dalla Federazione sionistica italiana, Milano, 1973, p. 188).
Giustamente scrive la Serri che “Emilio aveva già rotto i rapporti con Enzo, il fratello sionista”. Nel volume si legge che verso la fine del 1926, Enzo e Ada decisero di imbarcarsi per la terra promessa: ”Partimmo per testimoniare, per accettare in pieno il nostro destino di ebrei”(…) mentre Enzo asserisce di aver “sviluppato un’irriducibile avversione nei confronti di ogni totalitarismo”. Sennonché, si legge che “questa convinzione che il fascismo avrebbe cambiato drasticamente la vita degli italiani spinse Enzo e Ada a partire”. Enzo e Ada erano sicuramente socialisti (democratici) ed antifascisti, ma la loro partenza sarebbe avvenuta anche se il fascismo non fosse esistito, perché l’aliah, per un sionista, non dipende dal tipo di regime che ci si ritrova, ma dal solo fatto di vivere nella Diaspora.
Quanto al fascismo, Enzo Sereni, nello sviscerarne le cause, menziona, prima del 1922, “..la sorda irritazione del pubblico contro la ”scioperomania” che disturba continuamente il corso normale della vita di tutti” (Enzo Sereni, Le origini del fascismo, Brindisi,2015).
Già nel 1921, per via dell’incontro con Israel Reichert, Enzo Sereni conobbe il sionismo, persuadendosi della necessità di ripristinare l’unione del popolo ebraico con la sua terra. Così, non ancora diciasettenne, fondò il gruppo sionista Avodà. Ci sarebbe da aggiungere che Enzo Sereni, anziché sentirsi superiore al popolino, cercò in Italia di lavorare coi ragazzi “di piazza”, criticando i correligionari ricchi che non contribuivano al loro benessere (Ruth Bondy, The Emissary – come A life of Enzo Sereni, Afterword of Golda Meir, 1977, p. 38).
Serri descrive Enzo e Ada quali pionieri di un mondo nuovo ma anche come l’avanguardia dell’emigrazione antifascista. A nostro sommesso avviso, essi volevano anzitutto costruire il sionismo socialista, risolvendo in uno la questione nazionale e quella sociale, ma sul’ “anti” prevaleva il “pro”; non se ne erano andati perché antifascisti, ma in quanto sionisti. Tanto più che, quando Enzo diventa sionista, il fascismo non era al potere e, quando arriva al potere, lui e la moglie trascorrono cinque anni in Italia prima di fare alyah.
Enzo Sereni non dovrebbe essere annoverato fra “I giovani ribelli che sfidarono Mussolini” perché, con tutta l’avversione che aveva per il totalitarismo, la sua priorità non era quella di sfidare il regime ma di compiere il sogno sionista socialista.
Non è dimostrato che “il suo unico pensiero era stato come sottrarsi a quell’orrore”, visto che i parenti cercarono di convincerlo a restare in Italia e tenuto conto che non svolgeva un’attività politica che lo mettesse a repentaglio. È vero, per contro, che secondo Ada, Enzo sentiva “come nel fascismo trionfante si nascondesse un pericolo insidioso per gli ebrei come tali” (Per non morire, cit., p. 56).
Una piccola digressione, estranea a questa problematica: chi scrive conobbe Ada a casa della cognata di mia nonna, Ida Coen, tanti anni addietro, e ricorda le parole dure che dedicò alla sinistra. Un conto erano gli ideali socialisti che perseguirono, un altro conto, invece, era il comunismo.
Essendo Enzo un sionista convinto, non sembra ipotizzabile che la sua alià dipendesse o fosse comunque influenzata dal regime: sarebbe comunque partito e, in ogni caso, non siamo persuasi che pensasse a sfidare Mussolini perché, in quel caso, sarebbe rimasto in Italia come il fratello Emilio. Enzo, quando scrive che “contribuire alla ricostruzione della Palestina (è) dovere comune di tutti i figli del nostro popolo” (Per non morire, cit., p. 77) non subordina siffatto dovere al tipo di regime (oppressivo, liberticida e complottistico) in cui viveva. Golda Meir lo ricorda anche quando cercava di persuadere gli ebrei americani a fare l’alià, e certamente non vi era un regime oppressivo nel loro Paese. La parola “sionismo”, insomma, andrebbe rimeditata.
Una pregevole tesi di dottorato che è nel web (Sara Airoldi, Università degli Studi di Milano, Nazione in Patria. Gli ebrei italiani e la sfida dell’identità (1918-1938), anno accademico 2014/2015) dimostra come Enzo Sereni fosse un borochoviano convinto, un sionista socialista integrale, il cui sionismo non abbisognava di ulteriori risorse o motivazioni, essendo autosufficiente.
Ne consegue che, pur apprezzando moltissimo la qualità sia della persona che del lavoro, di notevolissimo spessore intellettuale e giustamente lodato da più parti, teniamo ad aggiungervi una sommessa postilla non per dar luogo ad un dibattito, non ipotizzabile data la modestia di chi scrive, ma per aggiungere, con una modesta notazione, ulteriore pregio ad un’opera già di per sé notevole. Ciò posto, anche se non l’ha mai scritto, l’esistenza del fascismo in Patria non era certo un incentivo a restare, ma la molla che fece partire Enzo Sereni in Palestina non era quella.
Emanuele Calò, giurista
(5 novembre 2019)