Yamim Noraim in Israele
Mercoledì, piove, sono a Pistoia. Metà settimana lavata via dall’acqua torrenziale, ma senza nessuna sorella sposa da visitare. E non so so parlar “di giorni felici, di libertà, d’amor proprio, d’amore”.
Mi fa invece compagnia un bambino infastidito che provo a far ballare sulle note di עונות (Onot, stagioni) di Aviv Geffen. Ricomparsa da chissà dove, nella compilation registrata da un amico canadese di ulpan tanti anni fa, in cui diverse sono le canzoni di artisti come Geffen (nipote di Moshe Dayan ma vicino ai refusnik), impegnati nel processo di pace e per i diritti LGBTQ.
Colto attivista gay, il mio amico parlava perfettamente italiano ed ebraico e viaggiava imparando lingue e culture di paese in paese. Con lui alla הבית הפתוח, la Open House in Ben Yehuda, ricordo un altro volto di speranza in una città plurale dai contrasti stridenti.
Qui, ora, abbiamo accolto invece l’inizio della settimana con la scomparsa di Alberto Sed e con la ventiquattresima commemorazione, passata in sordina, dell’assassinio di Yitzhak Rabin, dove davanti a decine di migliaia di israeliani Benny Gantz ha esortato a combattere i nuovi istigatori all’odio. Il 04 novembre 1995, su quel palco insieme a Rabin, c’era anche Aviv Geffen a cantare לבכות לך (piangere per te) che aveva scritto per la morte di un amico ed aveva già avuto la voce di Arik Einstein. Amara profezia della scomparsa del Primo ministro, ed in seguito colonna sonora del suo ricordo: לנצח אחי אזכור אותך תמיד / וניפגש בסוף, אתה יודע, “sempre fratello mio ti ricorderò / e ci incontreremo alla fine, lo sai”.
L’odio, l’altro volto di quel 04 novembre 1995 in cui la pace sembrava, era, vicina come non mai. L’altro viso, Yigal Amir, e dietro di lui il fanatismo oltranzista di una destra ultrareligiosa che non esitava ad usare con spregiudicatezza simboli nazisti – Rabin con i baffi hitleriani e la svastica. Dieci anni dopo, nell’Hitnatkut, il ritiro da Gaza voluto da Ariel Sharon (su di lui pubblicamente scagliate le stesse maledizioni lanciate già contro Rabin), camminavo in una città tappezzata da bambini del ghetto di Varsavia con le braccia alzate sullo sfondo arancione assunto dagli abitanti dell’insediamento ebraico a simbolo dell’opposizione al rientro in Israele. Una conoscente presa a male parole su un autobus perché malauguratamente indossava una maglietta dello stesso colore; striscioline arancioni regalate per le strade – viceversa, striscioline bianche e blu per la bandiera israeliana ed i fautori del disengagement in nome del processo di pace. Sul mio zaino, la chamsa, una spilla con la bandiera, e tutte le striscioline legate insieme – in metropolitana a Milano l’autunno seguente, un anziano suggerirà sottovoce in ebraico di togliere tutto: discrezione, non si sa mai.
Da poco proiettato nella Contemporary World Cinema section al Toronto International Film Festival (e ne sentiremo parlare, essendo il film israeliano candidato all’Oscar) Incitement di Yaron Zilberman, dedicato all’omicidio Rabin dal punto di vista del perpetratore: come Amir, già sulla tomba del fanatico assassino di Hebron, Baruch Goldstein, abbia iniziato ad immaginarsi nuovo antieroe intento a fare a pezzi gli accordi di Oslo, il suo affilarsi a gruppi radicali ultrareligiosi, il clima da guerra civile che precedette l’omicidio del Primo ministro. Uscito appena prima di Rosh HaShanà, il film ne evoca il clima anche nel titolo, Yamim Noraim, esortando il Paese ad una riflessione scevra da pregiudizi e visioni complottistiche che tuttora inquinano la ricostruzione del convulso periodo culminato con la morte di Rabin.
Chissà se riusciremo ad avere ragione dei vandali che periodicamente ne visitano la sepoltura, di chi ne attribuisce l’uccisione al radicalismo di sinistra, dei complottisti di varia natura (ultimo, l’accademico della Bar Ylan Mordechai Kedar alcuni giorni or sono). בליבי האור כבה, “nel mio cuore la luce si è spenta”, canta dal mio stereo Aviv Geffen.
Chissà se finiranno gli Yamim Noraim e arriveremo a Kippur.
Sara Valentina Di Palma