La demoralizzazione della storia

claudio vercelliPuntuale arriva il contrappasso, ancorché tra le righe del pensiero di senso comune, così come è a ragione degli amministratori che lo hanno ufficializzato con un rifiuto: non si va ad Auschwitz se non si passa, prima o dopo, dalle foibe. In quanto si tratta di luoghi di crimine, l’uno e le altre, tra di loro intrecciati (per meglio dire, intrecciabili). Un piccolo trittico, fatto di luoghi significativi in quanto pieni, se non esondanti, di storia: Predappio (Mussolini e il fascismo), Auschwitz (Hitler e il nazismo), Basovizza (Tito e il comunismo). Perché ricordare, commemorare e condannare gli uni e non evidenziare gli altri? C’è forse qualcosa da nascondere, riflettono gli interessati, che hanno prodotto una tale decisione. Quindi, i treni della memoria sono «di parte». D’altro canto, la recente risoluzione del Parlamento europeo che produce una equiparazione morale, prima ancora che storica, tra regimi totalitari, pialla la strada ad un percorso revisionistico di ampia portata. Chi non ne avesse compreso i potenziali orizzonti a venire, rivela di non averne neanche colto il senso profondo (e l’opportunità nonché la tempestività, rispetto ai tempi correnti). A partire da diversi episodi, che vanno ripetendosi in diverse amministrazioni locali della Penisola (anche Liliana Segre sarebbe di «parte»), come rispondere a una politicizzazione della storia che, di fatto, mette sullo stesso piano fascismi (la destra “illiberale” del primo Novecento, nella quale, una parte degli stessi neofascisti di oggi, per calcolato paradosso, dichiara di non volersi riconoscere), il nazismo e gli antifascismi (ovvero i «comunisti», ossia la «sinistra» punto e basta, laddove si è tali solo e semplicemente perché non ci si riconosce nel campo opposto)? L’intelaiatura di questo approccio parrebbe evidente: gli uni e gli altri si equivalgono, quanto meno in un giudizio di prospettiva. Una sorta di par condicio dell’immoralità e nel nome di quella esalatata «fine delle ideologie», che celebra innanzitutto la morte delle culture politiche e, con essa, del senso delle proporzioni come delle ragioni. Non solo di quelle storiche e politiche ma anche e soprattutto del significato da attribuire al presente e, in prospettiva, dei tempi a venire. Parlare di Lager vuole allora dire fare un discorso a «sinistra»; parlare di Gulag implica posizionarsi a «destra». Mischiamo le cose, così le riequilibriamo, ragionano certuni. Non è un caso se molti di quelli che rivendicano una sospetta equidistanza (“il sangue è sangue”, ci ricordano), riducendo il Novecento a pura macelleria, siano tra coloro che, se interpellati, si autodefiniscano come «né di destra, né di sinistra». Quest’ultimo indirizzo, per essere chiari, è stata l’ossature di tutte le nuove destre per davvero antiliberali, quelle dell’età industriale che, per raccogliere consenso e seguito intorno ai loro progetti di rigetto dei sistemi democratici, allora in via di consolidamento, hanno rivendicato un posizionamento radicale oltre il già esistente, dichiarandone la decadenza per inessenzialità. Da ciò derivano, per tutti noi, due conseguenze: la prima è che la stessa intelaiatura costituzionale – che incorpora l’antifascismo non come ideologia ma come cultura politica, sociale, civile e morale – potrebbe essere messa in discussione, prima o poi; la seconda è che l’eccezionalità del genocidio razzista, nel nome di una comparabilità che si fa – già nelle intenzioni – parificazione (gabellata per «pacificazione»), di fatto decade, divenendo semmai la matrice di tutto l’orrore e non una misura su cui comprendere la peculiarità di ognuno degli orrori. Se nella notte le vacche sono tutte le nere, ovvero indistinguibili, fare delle differenze diventa un esercizio capzioso se non odioso. Riguardo a quella tattica comunicativa che si traveste da “equilibrio” sul passato, essendo invece traiettoria strumentalmente politica, il cui obiettivo non è capire e ricordare ma confondere, ci sarà molto da dire, in futuro. Poiché è parte di una visione dei trascorsi, che si fa deliberata revisione, su cui si giocherà negli anni a venire una battaglia a tutto campo per la conquista del dominio del senso comune in un Continente che si sente accerchiato dai cambiamenti, anacronistico, in totale declino. A destra (una destra piuttosto radicale, oramai, non più debitrice dei vincoli del secondo Novecento) dello schieramento politico, italiano ed europeo, c’è chi l’ha capito e si sta muovendo di conseguenza. Da altre parti, invece, ci si culla ancora in un vacuo cerchiobottismo, di falsa liberalità, dove l’accogliere tutto e tutti equivale a cancellare la specificità delle tragedie ma – anche e soprattutto – a ridurre la storia ad una sorta di massa sanguinolente. Con il risultato che il tragico del passato si perde in uno sfondo senza contorni e dove poi a risultare rassicuranti, e quindi vincenti, sono coloro che promanano “autorità”, ossia dominio, controllo e censura, a prescindere da quello che potrebbero poi fare partendo proprio dalla legittimazione di politiche di esclusione verso gruppi identificati come una «minaccia». Un sistema istituzionale, ma soprattutto politico, che non incorpori più la legittimità del conflitto tra interessi contrapposti, semmai riconducendo il diritto collettivo ad un favore personalistico e la redistribuzione della ricchezza sociale a sola carità, veleggia già verso una qualche forma di regime. Non più necessariamente antidemocratico ma senz’altro illiberale. Per ciò che riguarda il nostro Paese, si può aggiungere una considerazione ulteriore. Che il dispositivo intrecciato tra Giorno della Memoria e Giorno del Ricordo potesse rivelarsi anche controproducente – laddove non avesse invece contribuito a costituire consapevolezza storica e quindi coscienza attraverso scale di rilevanza e di contestualizzazione, bensì calcolate competizioni e contrapposizioni (che si trasformano poi in volute confusioni) – era un limite ed un rischio palesi già al momento della istituzione di tali ricorrenze. Ora, a distanza di più di un decennio dal loro varo, siamo ben oltre. Poiché la memoria civile è anche una variabile dei mutevoli equilibri politici, tanto più se incorporata nell’operato pubblico delle istituzioni continentali e nazionali. Ciò che da adesso ne potrebbe derivare, nel qual caso, non sarà una fittizia unitarietà, magari costruita sulla tolleranza reciproca a distanza, bensì un campo di rivalse basate sulle contrapposizioni. Qualcosa del tipo: chi ne ha fatti fuori di più è il peggiore. Non è un problema di come si intenda il passato ma di come non si sia più capaci di costruire un futuro accettabile. Questo è il tempo che ci viene a mancare, nella coltre di cenere alla quale guardiamo, molti per profondo rispetto, altri invece per calcolo di interesse.

Claudio Vercelli