L’ebraismo maghrebino
“Ma perché fai finta di essere arabo?” chiede il Rabbino Abraham a suo nipote Raymond Rebibo, il quale per sopravvivere a Parigi si esibisce in affollati spettacoli nelle vesti di uno stereotipato cantante algerino: “Perché per fare l’ebreo serve l’accento polacco e non so farlo. Un ebreo del Maghreb non interessa molto alla gente, è troppo complicato, e il pubblico non ama le cose complicate” risponderà Rebibo.
Finalmente grazie a mio figlio sono riuscito a leggere Il gatto del Rabbino di Joann Sfar, un fumetto squisitamente filosofico dove sono però presenti anche numerosi aspetti storico-sociologici che concernevano gli ebrei d’Algeria d’inizio Novecento. Come per esempio il difficile rapporto con la maggioranza araba ma anche il razzismo da parte dei coloni francesi, o la diffidenza da parte delle istituzioni ebraiche francesi nei confronti degli ebrei autoctoni, spesso considerati “arretrati”, analfabeti, e troppo superstiziosi. In un capitolo si racconta persino del fenomeno della condivisione di alcuni tsaddikim rivendicati sia dai musulmani che dagli ebrei.
La parte che invece ho citato riflette il difficile riconoscimento e la condizione equivoca degli stessi ebrei del Maghreb, i quali per quanto periodicamente discriminati nei loro paesi d’origine non erano percepiti differentemente dagli arabi musulmani quando emigravano in Europa. Come ricorda anche recentemente un libro di Emmanuel Blanchard, Histoire de l’immigration algerienne en France, nella metà del Novecento gli ebrei algerini, molto numerosi nella parte meridionale del quartiere del Marais, continuavano a condividere con gli altri connazionali immigrati l’uso della lingua araba, i costumi alimentari, i gusti musicali, e talvolta la militanza in gruppi politici o studenteschi. Questa “ambiguità” era spesso risolta con l’acculturazione e l’assimilazione in seno all’allora maggioritario ebraismo ashkenazita grazie soprattutto a matrimoni misti con altri ebrei.
Per quanto l’ebraismo maghrebino sia stato per lungo tempo ingiustamente trascurato, e tutt’ora rimanga un terreno della storia ebraica meno esplorato rispetto ad altri, in Francia – dove gran parte degli ebrei dell’Africa del Nord risiede tutt’ora – e in Israele stiamo assistendo negli ultimi decenni ad un timido risveglio, come ho del resto raccontato in altri interventi. Con un leggero stupore la settimana scorsa a Parigi ho anche constatato come l’ebraismo maghrebino non sia documentato soltanto al Musée d’Art et d’Histoire du Judaism, ma sia presente anche all’Institut du Monde Arabe sulla riva meridionale della Senna.
Al di là delle ragioni etnografiche, riscoprire la storia e il patrimonio culturale degli ebrei del Maghreb non dovrebbe essere soltanto finalizzato a raccontare come gli ebrei e gli arabi abbiano in qualche modo convissuto per secoli nel bene o nel male o al contrario a raccontare come l’antisemitismo fosse già presente nel mondo islamico ben prima della nascita del sionismo, ma anche a mostrare a coloro che in un precedente intervento Giorgio Berruto ha chiamato, citando James Clifford, “fruttopuristi” di come le diverse culture si siano da sempre incontrate, scontrate e influenzate a vicenda. Come appunto “l’ambiguità” sia parte integrante di ogni storia culturale.
E infine anche per far tacere coloro che ritengono i moderni israeliani un elemento avulso dal resto del Vicino Oriente perché, secondo la loro ignoranza, esclusivamente figli e nipoti di “ricchi europei”.
Francesco Moises Bassano