L’ultimo erede del Bund
È un incontro denso e serrato, quello fra Gad Lerner, giornalista, e Wlodek Goldkorn, autore de L’Asino del Messia, pubblicato recentemente da Feltrinelli e presentato in uno degli ultimi appuntamenti di Book City, “festival diffuso” in tutta Milano dedicato ai libri.
“Io penso che sia stato Tito l’asino del Messia, perché distruggendo il Tempio ha sgomberato lo spazio dell’immaginazione, dell’attesa del Messia e della Redenzione, dall’inutile e pesante materialità del potere per dare lo spazio alla Parola. La Parola sopravvive sempre perché rende libera l’immaginazione.” Questo il passaggio che dà il titolo allo Zibaldone del giornalista e scrittore ebreo polacco, emigrato con la famiglia, adolescente, da Varsavia a Israele nel 1968, a seguito dell’espulsione dalla Polonia dei pochi ebrei che ancora vivevano lì dopo la guerra. Lo spostarsi, il cambiare luogo, il desacralizzare lo spazio. Sono questi alcuni dei temi conduttori del libro, che vede in Gerusalemme il luogo del sacro più nel momento della perdita che in quello del possesso della Terra. ” Questa non è una autobiografia”, esordisce Goldkorn davanti al centinaio di persone accorse ad ascoltarlo alla Casa della Memoria, quartiere Isola. E spiega: “L’io narrante di un libro non è l’autore, perché quell’autore al tempo era un ragazzino che non sapeva ancora e non aveva letto e visto e vissuto tutto ciò che invece sa questo anziano che ha scritto il libro. Questo è un libro pieno di contraddizioni, di antinomie che – come sempre nella realtà – necessariamente convivono. Un libro che dice la memoria degli sconfitti e canta la gloria della disfatta: io sono l’ultimo erede del Bund, (il primo partito socialista ebraico, nato nell’impero zarista e morto – o forse no – nei ghetti di Vilna e Varsavia, nda) e l’ultimo custode della lingua yiddish, che i sionisti disprezzavano, consideravano un gergo diasporico e corrotto e volevano sostituire con il “sano” ebraico dell’ebreo nuovo e sionista. Appartenere a una identità significa necessariamente tradire le altre? Scrivere e sognare in una lingua vuol dire assassinare l’altra?” È una domanda che l’autore si pone e che forse non ha risposta. La relazione con Israele è fortissima ne L’Asino del Messia, che mette in continuo dialogo due scenari e due paesaggi: il deserto “della promessa”, un po’ rosa, quello del Sinai, del Libro dell’Esodo, di Mosè, del silenzio nel quale la Legge viene rivelata al popolo ebraico e i boschi “pagani” delle divinità slave, cupi, di neve, di pericolo e di paura, nei quali “i neonati ebrei non sopravvivono” (quasi un richiamo all’Egitto biblico) i boschi della Polonia e della Lituania, dove a sterminare gli ebrei “I nazisti raramente vi si avventuravano”, non furono i tedeschi, ma la popolazione locale, i “vicini di casa” delle vittime ebree. Per quei boschi si struggeva di nostalgia Fania, la madre suicida dell’autore israeliano Amos Oz, con il quale Goldkorn ha intrattenuto un lungo rapporto di amicizia che risuona attraverso tutto il libro. Già, perché L’Asino del Messia porta in groppa un carico di libri, incontri, conversazioni, canzoni, poesie, film e tutto quanto un uomo che ha viaggiato e vissuto negli ultimi decenni del ‘900 ha potuto assimilare in una mente curiosa e cosmopolita, poliglotta quanto può esserlo quella di un vero “ebreo errante” dei nostri giorni: “Se no sembri uno scemo che sta lì a spiegare il mondo”, riflette Goldkorn: “Devi raccontare le cose che hai visto, perché il vestito del Messia si confeziona con gli stracci insanguinati delle storie che raccontiamo”. David Ben Gurion, sulla cui tomba nel deserto del Negev, nel kibbutz di Sde Boker, si conclude il libro, è un uomo che inizia la sua carriera politica nella Russia zarista militando non contro lo Zar, ma contro i bundisti, i veri nemici dell’ebraismo, perché oppongono al sogno del sionismo politico il motto yiddish “Mir blaybn do”: “Noi restiamo qui”, restiamo per lottare e realizzare qui, in Russia, in Europa la redenzione dell’essere umano, ebreo e non ebreo, portando qui – fra tutti – gli ideali di giustizia e fratellanza che la Torah ci ha insegnato. Il messia è un messia collettivo, come quello di cui ragionano Martin Buber e Gustav Landauer, che di esso ha una visione mosaica e anarchica. La redenzione è di tutti quelli che la fanno e forse portare a sintesi Ben Gurion e Marek Edelman, altra grande figura de L’Asino del Messia, padre spirituale (o forse meglio dire: politico) di Wlodek Goldkorn è impossibile e va bene così.
“C’era una Gerusalemme immaginaria a Berlino, ma anche Berlino aveva trovato un angolo per sé a Gerusalemme. C’era un quartiere, Rehavia, abitato da professori tedeschi che arrivarono qui, chi negli anni venti per partecipare alla fondazione dell’Università ebraica, chi nel decennio successivo per fuggire da Hitler. (…) Da Katamon (altro quartiere di Gerusalemme) i palestinesi se ne andarono cacciati dagli ebrei, a Rehavia gli ebrei arrivarono perché espulsi dai nazisti e dall’Europa. Dio solo sa quanto i sogni degli uni e degli altri si somigliassero.”
Se l’esperienza ebraica è – al tempo stesso – una delle più particolaristiche eppure cosmopolita, se l’identità così forte permette in fondo di essere un po’ ovunque pur rimanendo sé stessi, se – come suggerisce Gad Lerner – l’ebreo europeo è una specie in via di estinzione, noi questo non lo sappiamo ancora, ma ci auguriamo di no, per il bene dell’ebreo, certo, ma anche – molto – per il bene dell’Europa.
Miriam Camerini