La tesi di Küntzel
L’ostilità nei riguardi degli ebrei si può schematizzare in tre tipi: 1) antigiudaismo di tipo religioso, 2) antisemitismo tardo ottocentesco su base etnica, 3) antisionismo concentrato su Israele. Nel primo caso, era talvolta sufficiente la conversione perché cessasse l’ostilità. Nel secondo, la conversione poteva bastare, fino all’avvento del nazismo, basato su tesi non solo razziali, ma anche cospirative. Nel terzo, si rovesciano sullo Stato ebraico quasi tutte le accuse prima rivolte contro gli ebrei, diciamo ‘quasi’ perché vanno adeguate allo scarto fra individuo e Stato. Per sfuggirne, basta professare un sincero odio per Israele, che diventa il “Jew among nations”, una formulazione tanto pessimista quanto icastica. Questa terza forma di antisemitismo è quella più democratica ed accettabile, perché non solo consente agli ebrei di parteciparvi, ma addirittura ne incoraggia l’adesione, di cui abbiamo spesso dei fulgidi esempi. Sennonché, è alquanto agevole operare la ’reductio ad unum’ delle tre forme, distinguendo semmai i tecnicismi (eliminazione totale, dovuta però soltanto ad un salto di qualità consentito dalla predetta tecnica: non si disponeva, nel lontano passato, di treni, telegrafo, telefoni, carri armati, camion e tutta l’attrezzatura richiesta per l’eliminazione di milioni di persone, con un metodo capillare degno di un Amazon alla rovescia, dove anziché portare si deporta).
Matthias Küntzel (Il Jihad e l’odio contro gli ebrei. L’Islamismo, il nazismo e le radici dell’11 Settembre, a cura di Niram Ferretti e Angelita La Spada, Collana “Ricerche sull’antisemitismo e sull’antisionismo”, diretta da Niram Ferretti, Salomone Belforte &C., Livorno, 2019, tradotto dai curatori dalla versione inglese, l’originale tedesco è: “Djihad und Judenhaß. Über den neuen antijüdischen Krieg, Ça Ira, Freiburg, 2002) rimette in ordine le cose, e lo fa seguendo la richiamata ‘reductio ad unum’.
Non è roba da poco, in quanto equivale ad espungere in una sola botta l’intera concezione dominante del conflitto arabo – israeliano, convogliandolo nella sola avversione nei riguardi degli ebrei. Nel volume, ogni affermazione è documentata, il tono è freddo e distaccato; quando deve criticare Israele, non si tira indietro e lo fa con serenità, naturalezza e disinvoltura (lo fa quando cita l’appoggio fornito ad Hamas contro l’OLP, a p. 214).
Inoltre, l’autore non è né antiarabo né antislamico, e così impartisce una lezione a chi non riesce a vivere senza pregiudizi. Per esempio, di recente uno storico si è riferito a “gli ebrei”, come se fossero una massa informe che si muove all’unisono, mentre Küntzel si guarda bene dalle generalizzazioni, che sono il veicolo per eccellenza del pregiudizio, e distingue in seno alle categorie da lui coinvolte.
Queste idee sono condivise da Mordechai Kedar, che le espose in un’intervista allo stesso Ferretti, che troviamo sul web. Non era e non è eccezionale averle concepite, però resta vero che esse rovesciano l’impostazione dominante. Quanto a noi, troviamo preoccupante che una prevalente visione errata, che insiste nel confondere i desideri con la realtà, renda impossibile la pace, che non dovrebbe essere necessariamente un’utopia. Giulio Cesare, in De Bello Gallico, spiegava che gli uomini sono inclini a credere vero ciò che desiderano. Non è però sufficiente etichettare questa prospettiva come wishful thinking se non si chiarisce perché vi sia un tale desiderio. Una delle ragioni – non certo l’unica – può essere rinvenuta nel sistema valoriale della sinistra, un edificio costruito sul manicheismo, sul pauperismo e sulla colpevolizzazione della vittima, un’arte in cui Hannah Arendt raggiunse vette d’eccellenza.
Le conseguenze di questa tesi potrebbero mutare tutta la prospettiva del conflitto, rendendolo, paradossalmente, meno acuto perché, se si venisse a capo della patologia (assumendo che ogni conflitto lo sia) sarebbe più facile affrontarla ed eventualmente venirne a capo.
Emanuele Calò, giurista
(19 novembre 2019)