Torino e le Leggi antiebraiche
Gli avvocati a cui rendere giustizia

“Forse mai prima di oggi l’aula magna di questo Palazzo di Giustizia è stata così gremita ed è la testimonianza dell’importanza di questo evento”. L’occasione a cui fa riferimento Giovanni Canzio, già Primo Presidente della Corte di Cassazione, è la commemorazione voluta dall’Ordine degli avvocati di Torino per i 54 colleghi ebrei che 80 anni fa furono esclusi dalla professione a causa delle Leggi razziste. Una targa ora ricorda tutti i loro nomi: “Perché l’odio e l’indifferenza verso l’altro non debbano più ripetersi e perché sia bandita ogni discriminazione”, il monito che compare sulla scritta, svelata al Palazzo di Giustizia alla presenza di alcuni discendenti di chi subì l’insulto dell’espulsione e della cancellazione dell’albo per il solo fatto di essere ebreo. “Fu il direttorio fascista a prendere questa decisione ignominiosa e non un presidente del consiglio dell’Ordine perché erano stati soppressi”, ha sottolineato la presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino Simona Grabbi, che ha svelato la targa assieme al presidente della Corte d’Appello Edoardo Barelli Innocenti. “Siamo qui però – ha proseguito Grabbi, intervenendo al successivo convegno nell’aula magna del Tribunale di Torino – per fare ammenda per il silenzio passivo che tutti noi colleghi abbiamo purtroppo osservato. E se allora siamo stati troppo silenziosi adesso dobbiamo avere il coraggio di ricordare i nostri 54 colleghi espulsi”. “Per loro, avvocati, giovani o anziani, soli o con famiglia alle spalle, veniva a mancare non soltanto dalla sera alla mattina il lavoro, la professione, il rapporto con i colleghi, i magistrati, i clienti, veniva a mancare il terreno sotto ai piedi. – ha ricordato nel suo intervento l’avvocato Giulio Disegni, vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e moderatore del convegno – Iniziava un periodo di sofferenze, di stenti, di non saper cosa fare e come campare, iniziava quella che è stata definita la persecuzione dei diritti”. Disegni nel suo intervento ha poi ricordato che tre degli avvocati espulsi furono deportati dei Lager nazisti: Remo Jona, Cesare Segre ed Emanuele Sacerdote. Quest’ultimo non sopravvisse all’orrore dei campi. A spiegare alle centinaia di persone presenti la macchina delle Leggi razziste in Italia sono stati, tra gli altri, gli storici Michele Sarfatti e Annalisa Capristo. “Per la prima volta con le Leggi del ’38 l’Italia legiferò per ridurre i diritti di una parte dei propri cittadini. Non era mai accaduto”, ha sottolineato Sarfatti, ricordando come fu messa in piedi una macchina normativa pensata sin nei minimi dettagli per escludere e discriminare gli ebrei dalla società italiana. “Il fascismo, a differenza di quanto a lungo si è detto, non era un totalitarismo da operetta”. Attraverso un documentato uso delle fonti, Capristo ha poi tracciato un quadro della situazione più specifica degli avvocati di fronte alle leggi antiebraiche. A chiudere la giornata, gli interventi Guido Neppi Modona, già giudice della Corte Costituzionale (“La magistratura e le leggi razziali: non tutti si limitarono a rimanere silenti”) e dell’avvocato Paola De Benedetti (“Appunti sul foro torinese. Cronaca a Margine della Storia”). A tutti i relatori è poi arrivato il messaggio della senatrice a vita Liliana Segre: Voglio significare però tutta la mia vicinanza perché nella mia famiglia – nonno e zio avvocati – hanno dovuto lasciare la professione. Erano persone intelligenti. Il mio saluto e il mio augurio che tutto questo non avvenga mai più”.

Di seguito il testo dell’intervento dell’avvocato Giulio Disegni:

ordine avvocati torino

convegno 54 ESCLUSI – INTRODUZIONE

Immaginiamo se ci riusciamo, anche solo per un attimo, quale effetto devastante dovettero avere quelle 54 lettere, contenenti la Delibera di esclusione dall’Albo, notificate a partire dall’estate del 1939 a 54 avvocati torinesi, colpevoli solo di essere ebrei, o cittadini italiani di religione ebraica, quale senso di sgomento profondo, di ansia, di smarrimento, di frustrazione dovettero abbattersi in quelle 54 case, in quelle 54 famiglie quando gli Ufficiali Giudiziari bussarono alle loro porte per comunicare loro l’esclusione, la radiazione, la cancellazione non solo dall’Albo professionale, ma dal consesso nel quale avevano sempre operato ed erano vissuti, nel quale si riconoscevano.
Per loro, avvocati, giovani o anziani, soli o con famiglia alle spalle, veniva a mancare non soltanto dalla sera alla mattina il lavoro, la professione, il rapporto con i colleghi, i magistrati, i clienti, veniva a mancare il terreno sotto ai piedi. Iniziava un periodo di sofferenze, di stenti, di non saper cosa fare e come campare, iniziava quella che è stata definita la persecuzione dei diritti. A Torino, come in tutto il resto d’Italia, nel 1939 i professionisti ebrei non potevano più operare per volere dello Stato, quello Stato che l’anno prima, nel settembre 1938, a due mesi dalla pubblicazione del famigerato Manifesto della Razza, aveva promulgato l’esclusione da tutte le scuole e università pubbliche degli studenti e docenti ebrei, a cui erano seguiti nel novembre 1938 i decreti per la difesa della razza e poi via via, in un crescendo che non lasciava scoperto nessun settore della vita pubblica e civile, l’ esclusione dal commercio, dalle banche, dalle assicurazioni, dal servizio militare; il divieto di possedere immobili e di avere al proprio servizio personale domestico non ebraico e così in ogni settore della vita civile, sociale, economica, culturale.
Le leggi del settembre-novembre 1938, volute dal regime fascista, colpevolmente sottoscritte dalla monarchia e applicate con la massima solerzia e con il massimo vigore dalla pubblica amministrazione, segnano una radicalizzazione del regime, un vero abominio, sconvolgendo le vite di migliaia di cittadini italiani, a cui vennero dapprima revocati i diritti e poi distrutte le esistenze.
Nell’anno successivo sarebbe stata emanata la legge 1054 del 29 giugno 1939 di “Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica”. Sotto questo titolo e con un linguaggio apparentemente burocratico si intendeva nascondere la decisione di emarginare i professionisti ebrei dalla vita lavorativa e sociale, dal mondo cui fino ad allora erano appartenuti. La legge riguardò le professioni di giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale ; mentre fu preclusa in via assoluta l’esercizio della funzione di notaio. I professionisti erano obbligati a denunciare la propria appartenenza alla “razza ebraica” entro il termine di venti giorni dall’entrata in vigore della legge, pena l’arresto fino a un mese e l’ammenda fino a lire 3.000. Gli avvocati ebrei furono suddivisi in due gruppi, a seconda del possesso o meno del requisito della discriminazione, che poteva essere concesso agli appartenenti ad alcune categorie meritevoli di tutela in quanto “benemerite della Patria”, e gli accertamenti compiuti dalla nuova Direzione generale per la demografia e la razza (“Demorazza”) istituita il 17 luglio del 1938 presso il Ministero dell’interno. Queste eccezioni potevano essere applicate ai componenti delle famiglie dei caduti o ai mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore nelle “guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola e dei caduti per la causa fascista”; agli iscritti al Pnf prima del 1922, ai “legionari fiumani”, a coloro che avessero acquisito “eccezionali benemerenze”
E se quella degli italiani nel tempo della discriminazione razziale fu – con le dovute, rare eccezioni – una storia di meschinità, egoismi e tradimenti, è anche vero che la grande maggioranza degli ebrei italiani si salvò grazie all’aiuto di altri italiani, che anche mettendo a rischio la propria vita, non esitarono ad aiutare, nascondere, dare rifugio a chi era costretto, dopo l’8 settembre 1943, a mettersi in salvo per sfuggire alle deportazioni nei campi di sterminio. Questi i temi che si impongono alla riflessione dei cittadini e della società tutta: l’indifferenza, l’oblio, i silenzi e le responsabilità degli italiani, ma anche gli aiuti e i supporti di molti che non si piegarono ai voleri dell’apparato fascista e che rischiarono in prima persona.
Anche l’avvocatura, e anche di questo oggi noi parliamo, non fu da meno e si conformò al comportamento silente e indifferente del resto della società civile: l’atteggiamento degli Ordini forensi, allora Sindacati Fascisti degli Avvocati e Procuratori, fu ligio al dovere, gli avvocati ebrei nel corso del 1939 ovunque furono espulsi dagli Albi di appartenenza e fu loro interdetta la professione.
Per questo siamo grati all’Ordine degli Avvocati di Torino, al suo Consiglio, alla sua instancabile Presidente, perché con il Convegno di oggi, la Targa in ricordo dei 54 avvocati esclusi, e la Mostra che si è appena inaugurata e che resterà aperta un mese, quella pagina, buia e tragica, della storia del ‘900 è stata riportata alla luce come un forte monito. Come bene ha scritto nella prefazione al volume Razza e Ingiustizia Andrea Mascherin Presidente del Consiglio Nazionale Forense  “L’ingiustizia diventò diritto. E gli avvocati ne furono subito consapevoli“ perché noi – lo scrive Piero Calamandrei – a differenza di tante altre professioni non abbiamo mai trovato nel nostro quotidiano lavoro il pretesto per distrarci dalla realtà politica ma abbiamo incontrato nel maneggio delle leggi la conferma esasperante della nostra vergogna”.