Dreyfus e il lieto fine che non c’è
“L’Affaire Dreyfus” solo in apparenza è una fiaba a lieto fine. Roman Polanski con “L’Ufficiale e la spia” apre a una lettura del presente al passato. Si tratta, una volta scorsi i titoli di coda, di uscire per strada e andare oltre la storia giudiziaria. La riduco all’osso.
C’è un costante ritorno del mito del complotto giudaico nella cultura di tutte i regimi politici attuali (2019). Il caso Dreyfus è solo un episodio che marca una differenza tra prima e dopo. Prima era sufficiente montare un processo e il presunto complotto veniva punito. Dopo, invece, fare un processo non è più sufficiente perché i processi si possono anche perdere (una cosa che i complottisti non possono sopportare). Così la fine dell’Affaire Dreyfus può essere vista da due punti di vista degli spettatori, che come sempre, nei periodi di persecuzione stanno a guardare per vedere come va a finire. Gli ottimisti diranno che la verità trionfa alla fine. I pessimisti diranno che non potendo condannare Dreyfus, allora bisogna trovare una diversa procedura che confermi la convinzione complottista. La storia di quel momento, vista da qui e ora, dice che è la seconda ipotesi quella che trionfa. Quell’ipotesi è capace di spiegare una parte essenziale del tempo che da allora arriva a noi oggi, ora. Dreyfus è liberato, mentre nell’opinione pubblica si conferma la sindrome del complotto giudaico come minaccia. Uscite dal cinema e chiedete a Viktor Orban (e a tutti i suoi amici, ovviamente, anche qui, tra noi), se avete dei dubbi. Meglio se parlate le loro lingue originali o i loro gerghi. C’è qualche probabilità in più che vi diano risposte senza equivoci e non ammiccanti.
David Bidussa, storico sociale delle idee