La “parte” di Auschwitz

claudio vercelliIntorno alla figura pubblica (ben prima che alla persona in quanto tale) di Liliana Segre, in un gioco di rifrazioni permanenti, quindi anche di specchi che si riflettono a vicenda, si sta giocando sempre più spesso una partita che assume tratti discutibili se non sgradevoli. E che tuttavia non può sorprendere oltre misura. Andiamo per ordine, poiché il contenuto di un tale insieme di eventi esula, per buona parte, dal merito della trascorsa vicenda umana della senatrice a vita, come dalla sua stessa ricaduta, attraverso l’attività di testimonianza diretta che ne rende, nell’agone della coscienza civile. Il vero campo di battaglia è infatti ora di ordine politico. I due tornanti che hanno definitivamente piegato l’intero discorso pubblico in tale senso sono stati prima la richiesta, avanzata dalla stessa Segre, di istituire una commissione senatoriale di indagine e indirizzo contro l’hate speech e l’intolleranza; poi – a seguito della denuncia per le minacce subite – le ripetute manifestazioni pubbliche di solidarietà che si sono tradotte, per parte di non poche municipalità, nell’intenzione di conferirle la cittadinanza onoraria. L’una e l’altra cosa sono iniziative assolutamente pregevoli e meritorie. Ma bisogna essere consapevoli che cadono, per l’appunto, dentro il campo minato della politica. A confermare che la memoria (se non si riduce solo alla commemorazione, al medesimo tempo emotiva ma anche sterile, di una lista di nomi di morti) ha essa stessa un immediato riflesso di tal genere. Poiché presenta anche una natura necessariamente divisiva, denunciando responsabilità dirette, omissioni, compromissioni che rimandano al passato ma si rispecchiano, per più aspetti, nell’agire al presente. Divisiva, quindi, nel senso che non mette tutti insieme nello stesso gruppo, ma ne suddivide il valore morale in base alle condotte assunte. In politica, peraltro, non ci si equivale: si chiede sempre una scelta di campo, il più delle volte su singole questioni negoziabili ma, in certi momenti, anche su principi e valori della convivenza civile. Le memorie “pacificate” sono peraltro una contraddizione in termini. Non esistono se non in quell’omologazione, falsamente rassicurante. tra storie diverse, laddove il vero obiettivo non è trovare un filo conduttore comune sul piano etico bensì trasformare la storia medesima in un minestrone rancido (poiché i gusti si mescolano e quindi si equivalgono, sia pure masticandone le verdure avvizzite con difficoltà), nel quale ogni cosa diventa fittiziamente equivalente all’altra. La tua colpa lava la mia, semmai. Se però tutto è uguale, se il passato è solo una valle di lacrime, Auschwitz non ha più nulla da insegnarci. Il terzo passaggio di cronaca al quale ci riferiamo, quest’ultimo ad onore del vero non solo improvvido ma anche intempestivo e incongruo, nonché potenzialmente controproducente, è la volontà espressa da Lucia Annunziata, e dal direttore del quotidiano La Repubblica, di candidare la senatrice a vita come prossima Presidente della Repubblica, quando il mandato istituzionale di Sergio Mattarella si concluderà. Tale è, sommariamente, il quadro di riferimento nel quel inserire alcune riflessione. Chi ha rifiutato buona parte o la totalità di queste iniziative, adduce un motivo secco: il tutto, a proprio dire, sarebbe infatti viziato da un processo di manipolazione ed adulterazione del ruolo di testimone di Liliana Segre, che avrebbe dovuto invece rimanere “al di sopra delle parti”. In altre parole, la senatrice sarebbe stata usata da alcune forze politiche per piegare la lettura della storia trascorsa ad interessi di fazione. In verità, questa obiezione, che a non pochi potrebbe risultare di primo acchito sensata, è invece totalmente priva di fondamento. Poiché non solo la testimonianza, nella sua radice, rivendica a priori una condizione di parte (in questo caso quella della vittima, che in nessun modo può coincidere con altre figure, men che meno quelle dei carnefici) ma al medesimo tempo indica, non importa se apertamente o tra le pieghe del discorso, le specifiche e consapevoli responsabilità dell’offesa. Che, tanto più in un caso come questo, non sono riconducibili solo ad una generica “cattiveria umana” bensì alla volontà politica di chi si adoperò per trasformare il razzismo in dottrina (e prassi) di Stato. Dividendo la società in razze. Non ci sono spazi di riconciliazione con chi non abbia fatto i conti con una tale terribile eredità. Che non è quella genericamente ascrivibile ad un difetto di coscienza (non comprendere gli effetti di certe scelte) bensì ad un pieno di consapevolezza (praticare quelle scelte proprio per gli effetti deteriori che producono su una parte della società). La medesima riconciliazione – ovvero, in questo caso la reciproca comprensione – non si dà con chi, oggi, pur non rivendicando apertamente quei trascorsi parrebbe averli comunque archiviati con eccesso di disinvoltura. Magari stabilendo facili ma improprie equazioni tra la propria condizione odierna e quella di chi pagò allora un tragico pegno (le minacce non si equivalgono, così come non si sommano e non si confondono storie e periodi storici; semmai le une e gli altri si possono confrontare ma non omologare). La retorica della partigianeria (“è di parte”) viene in genere praticata proprio da coloro che manipolano, dentro il rimando ad un bipolarismo ossessivo (destra/sinistra), il discorso storico, fingendo che possa essere ricostruito e pacificato dentro la cornice di un falso consensualismo, basato sull’azzeramento delle differenze e, quindi, delle medesime responsabilità. (Quelle, ovviamente, della parte con la quale si identificano.) L’equiparazione acritica tra i fantasmi del nazismo e del comunismo si inscrive in questa dinamica. A chi controbatte sulla comparabilità (e sulle complicità) dei due regimi, ma non sulla loro omologabilità, viene in genere polemicamente risposto che così facendo intende difendere l’indifendibile, magari non guardando nel giardino di casa sua. Volutamente sfugge, a chi solleva tali obiezioni, il fatto che se nella notte le vacche sono tutte dello stesso colore, qualsiasi orizzonte di senso, e quindi di scelta, diventa impraticabile. Non tra fascismi e comunismi, ma tra acquiescenza sistematica e libertà politica, quest’ultima ancorché problematica. L’antifascismo si colloca in questa seconda relazione, non nella prima. Ciò che della testimonianza di Liliana Segre si rifiuta è, per l’appunto, il nesso politico che essa stabilisce tra passato e presente nel momento stesso in cui trasmette la sua esperienza. Un nesso peraltro inevitabile. Un nesso che non è equivalenza e neanche omologia ma riflesso analogico e di confronto. A dire: se non ci si assume la responsabilità delle proprie scelte si cade nello stato di «indifferenza» (da molti vissuta, non a caso, come il “non essere di parte”). E l’indifferenza è la porta, neanche troppo stretta in società di massa, verso l’accettazione dell’altrimenti inaccettabile, quindi atto di decadenza prima morale e poi civile. Vi è un ampio schieramento, politico e culturale, che facendosi scudo dietro attestati di stima e amicizia verso qualcuno o qualcosa, rischia di anestetizzare l’impatto della memoria della Shoah. Per alcuni tratti è trasversale, laddove rivela la malcelata intolleranza nei confronti dell’ebraismo, soprattutto quand’esso è percepito anche come un soggetto politico della cittadinanza repubblicana e sociale; per altri tratti, invece, è strettamente identificabile con gruppi politicamente definiti, per i quali la precondizione per avere libertà di azione è il livellamento della coscienza del significato politico della storia. A chi ci dice che la politica è in sé «deteriore», chiedendo semmai per sé e i suoi pari una delega senza troppi condizionamenti, bisogna guardare con dichiarato sospetto. A chi pedissequamente ci ripete che qualsiasi conflitto sia in se stesso negativo, invocando un inesistente equilibrio che deriverebbe dal “non prendere le parti”, va risposto che l’assenza di confronto è in realtà un deliberato occultamento delle asimmetrie di potere e dell’ingiustizia, grazie alle quali hanno avuto libero spazio le peggiori esperienze del Novecento. Come aveva detto Gaetano Salvemini nel 1932, giudicando Mussolini: «Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere». Non c’è bisogno di «odiare gli indifferenti»; abbiamo semmai bisogno di coltivare il diritto alla nostra differenza, quella produttiva, che si adopera contro la diffidenza sistematica che deriva dal rendere l’orizzonte della vita di tutti un insieme amorfo di “indifferenti”. Questo è – forse – il lascito testimoniale che Liliana Segre sta costruendo: l’essere partigiani perché la ragione non sta ovunque ma riposa nella coscienza vigile. Che è in sé sempre e comunque irrequieta e si muove tra le parti in gioco.

Claudio Vercelli