Consapevolezza storica e rischi patologici
Ottanta anni dopo, la società italiana sembra finalmente prendere coscienza del significato complessivo, articolato, ramificato delle leggi razziste emanate e rese operative dal fascismo. Ci si rende conto in maniera crescente che esse non furono solamente uno schieramento politico radicale e rovinoso del regime nell’ambito dei rapporti internazionali, una sorta di manifesto ideologico con cui l’Italia imperiale di Mussolini si affiancava in tutto alla Germania delirante di Hitler. Analisi storiche sempre più particolareggiate e diffuse aiutano a comprendere la vasta portata economica, sociale, morale di quei provvedimenti: migliaia di famiglie ridotte repentinamente in precaria situazione economica dalla perdita del lavoro, isolate rispetto al resto della popolazione da una serie crescente e paradossale di divieti, additate collettivamente al pubblico ludibrio da un sistema di comunicazione capillare che colpiva attraverso titoli di scatola, articoli, vignette e caricature, cartelloni, film e documentari, roboanti e violenti proclami. Un’incitazione all’odio di massa che gli italiani forse non accoglievano in modo partecipe come facevano i tedeschi in Germania, ma che introiettavano dimostrando una diffusa indifferenza.
La progressiva consapevolezza di oggi è testimoniata dal succedersi dei momenti collettivi di ricordo e di riflessione, che seguono il succedersi degli anniversari. È in questo clima che a Torino, mercoledì scorso, è stata scoperta al Palazzo di Giustizia una lapide con cui l’attuale Consiglio dell’Ordine degli Avvocati ha voluto rendere omaggio ai 54 avvocati ebrei espulsi dall’Albo e di fatto esclusi dalla professione per effetto della Legge 1054 del 29 giugno 1939. E il momento della simbolica riparazione, adeguatamente approfondito attraverso una mostra – curata da Claudio Vercelli – sulle radici e sul percorso delle leggi razziali, ha giustamente poi lasciato il posto – in un’Aula Magna gremita di settecento persone – a un convegno di analisi storica, politica, giuridica dedicato a quel provvedimento, al suo contesto e ai suoi effetti. Una riflessione articolata che è proseguita la sera stessa al Centro Sociale della Comunità Ebraica, con la presentazione del prezioso volume Il Registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti. 1938-1943, in cui Annalisa Capristo e Giorgio Fabre analizzano il sistema di provvedimenti che ha escluso gli ebrei dagli impieghi statali e le conseguenze drammatiche che ne sono derivate a livello familiare e individuale.
La conoscenza storica su quell’abisso della storia italiana pare dunque poco a poco diffondersi, i frammenti di tante esistenze spezzate possono parzialmente ricomporsi grazie alle rinnovate occasioni di attenzione e di approfondimento. In particolare, esse assumono un forte significato formativo se assieme alla cittadinanza sono gli studenti a raccoglierle, indirizzati dai loro insegnanti su percorsi di documentata ricostruzione: anche recentemente ne ho parlato su questa pagina.
Resta sempre, certo, il sospetto che il dovere continuo di ricordare sia avvertito comunque da un’esigua minoranza; o che le istituzioni intervengano agli incontri più per riguardo al politically correct che per autentica sensibilità. L’incertezza, insomma, circa la veridicità di una diffusa presa di coscienza. Ed è impossibile non alimentare questi dubbi di fronte al contemporaneo crescente riemergere dell’antisemitismo, fenomeno incontrollato e dalle conseguenze imprevedibili.
Si tratta in effetti di una febbre, che ha cause precisamente analizzabili e che si fonde con analoghe tendenze autodistruttive. Così era avvenuto nell’Italia fascista degli anni Venti e Trenta, quando la crisi inarrestabile a cui la Grande Guerra aveva condotto l’Italia liberale aveva trovato una mistificante risposta nello Stato autoritario realizzato dal fascismo e poi nelle sue vuote aspirazioni imperiali. Gli ebrei italiani erano stati allora tra i pochi a mantenersi fedeli a quell’immagine progressiva e direi “giolittiana” di Nazione moderna, economicamente emergente, aperta che l’Italia aveva dato di sé all’inizio del Novecento: una realtà politica e sociale a cui essi avevano dato il proprio contributo costruttivo, partecipando e integrandosi orgogliosamente – anche a spese di se stessi e della loro piena identità ebraica – in uno Stato che era totalmente il loro. Poi la crisi generale, la violenza emersa dalla prima guerra mondiale e diffusasi a livello civile, la nascita del fascismo e delle sua squadracce di picchiatori avevano travolto per sempre quell’ “Italietta giolittiana” e civile. Nella loro inarrestabile febbre autodistruttiva, le paranoiche aspirazioni nazionalistiche del fascismo avrebbero ben presto tradito la stessa nazione e nutrendosi anche del veleno antisemita avrebbero travolto gli ebrei italiani che in essa si erano del tutto integrati, fino al punto di espellere di fatto dalla nazione italiana proprio coloro che ne erano stati fautori convinti e partecipi.
Difficilmente quel paradosso storico si ripeterà nella stessa forma. Attenzione però ai pregiudizi e ai complottismi, diffusi oggi come ieri, e oggi come ieri pronti a essere raccolti da una pesante insoddisfazione popolare, animata da perenni rivendicazioni contro presunte élite o caste. Ancora oggi, nonostante una crescente consapevolezza, la sorda rabbia popolare è pronta a incanalarsi attraverso i percorsi dell’antisemitismo.
David Sorani