Antisemitismo, letture riduttive
L’ormai noto articolo che Ernesto Galli della Loggia ha dedicato sul Corriere della Sera del 26 novembre scorso a una interpretazione del riemergente antisemitismo ha certo avuto un ruolo importante: l’attenzione di molti lettori e commentatori si è concentrata su un tema focale e lacerante che è però spesso, forse anche per timore di sviluppi pericolosi, messo in sordina nell’attuale dibattito sociopolitico. Una sottovalutazione che, lungi da aiutare il superamento del problema, ne accentua la portata man mano che i fatti e i contenuti antisemiti si succedono e i loro pesanti effetti si accumulano. A mio giudizio la radice delle considerazioni di Galli della Loggia è fondata, ma lo sviluppo che ne emerge, per quanto in parte valido, appare incompleto e talvolta riduttivo. La sua lettura dell’attuale crescente diffusione dell’antisemitismo non riesce a dar conto in modo adeguato di una realtà sfuggente, interiorizzata, infida.
Tra le risposte e le precisazioni che si sono lette in questi giorni, quelle sviluppate da Rav Della Rocca il 4 dicembre sul Corriere mi paiono essenziali: è spesso la basilare ignoranza sugli ebrei e l’ebraismo a provocare nei loro riguardi la prevalenza degli stereotipi semplificanti del legalismo, della malintesa “legge del taglione”, dell’assenza di spiritualità rispetto all’amore consolatorio retaggio presunto del cristianesimo; stereotipi che tendono a produrre pregiudizio e “antipatia” diffusa e a provocare talvolta un disprezzo superficialmente legato anche alla scarsa incidenza numerica dell’ebraismo. A questi aspetti Rav Della Rocca aggiunge giustamente quelli derivanti da una distorta interpretazione del legame tra Israele e la Shoah, che vede lo Stato quale “compensazione” dello sterminio mentre esso in realtà – figlio di una antica identità etnica e nazionale ritrovata dal sionismo – è nato “nonostante” lo sterminio; e come ben sappiamo, anche dal versante mediorientale vengono appigli a un risorgente antisemitismo che non ama la vitalità e la decisione con cui Israele difende la propria integrità.
Ma, tornando alla fonte del dibattito, perché il giudizio di Galli della Loggia appare nell’insieme inadeguato?
È vero e indiscutibile quanto egli pone a base del suo discorso: l’ebraismo si trova all’inizio e alla fine del percorso della civiltà occidentale, all’origine dei suoi valori etico-religiosi attraverso la mediazione del cristianesimo e come oggetto della loro stessa distruzione per mezzo della Shoah. Ma già a questo livello, quanti sono oggi coscienti delle radici ebraiche della visione cristiana? Molti in realtà non le riconoscono, cogliendo anzi nell’ebraismo un precedente negativo rispetto al “nuovo patto” del Vangelo. Sottacendo tale aspetto, si nasconde una delle matrici storiche dell’antisemitismo, ancora oggi attiva. E’ vero anche che il peso del senso di colpa collettivo legato allo sterminio e la pressione esercitata dalla testimonianza incessante dei superstiti possono generare un difficile rapporto o addirittura una “antipatia” nei confronti degli ebrei di oggi, sentimenti pronti a sconfinare nell’animosità. Questo però appare più un epifenomeno o se vogliamo la punta dell’iceberg rispetto agli elementi di fondo, che a mio parere sono altri, sia come vere cause sia sopratutto come essenza dell’antisemitismo.
La causa prevalente della crescita e della circolazione di sentimenti antiebraici risiede oggi nella crescente rabbia popolare (e populistica) contro fantomatiche “caste”, contro presunti e non ben identificati “poteri forti” che godrebbero di vantaggi esclusivi di natura prevalentemente finanziaria a beneficio di pochi. Gli ebrei rappresentano da secoli nell’immaginario collettivo il prototipo della casta organizzata e autoreferenziale, e per questo sono da secoli polo di attrazione di rabbie sorde e di esplosioni violente di collera collettiva in cui si coagulano risentimenti economici, sociali, culturali e religiosi. Il privilegio dell’avversione popolare tocca proprio agli ebrei perché la massa tende a percepirli come gruppo culturalmente e intellettualmente superiore, e ciò provoca un senso di inferiorità diffusa, pronto a tramutarsi in aggressività alla presenza di un elemento catalizzatore o organizzatore. Tali fattori persistono oggi, in presenza di movimenti populisti-sovranisti che tendono ad alimentare la collera generale sul terreno socio-economico e ad usarla come strumento di consenso e di potere.
Quanto all’essenza dell’antisemitismo, anche ai nostri giorni essa mi pare consistere nel rifiuto, nella paura del “diverso”, percepito come un alieno, uno “straniero” avvantaggiato e in posizione di dominio. Gli ebrei sono un archetipo di diversità invisibile e interiore/etica, per questo sono avvertiti quali “estranei” al mondo comune; l’etica convergente o l’origine ebraica del cristianesimo appaiono ai più riflessi lontani, pallide tracce di situazioni che affondano nella notte dei tempi. L’estraneità, confermata dalla netta diversità tra le due religioni, tende a prevalere e si trasforma in diffidenza – paura – distanza – odio. Certo, non è questa l’unica matrice dell’attuale antisemitismo: permane e significativamente si rafforza in un periodo di crescenti nazionalismi e parafascismi l’odio neonazista e neofascista, alimentato dall’idolatria nostalgica di alcuni gruppi; permane l’odio pan-arabista, legato all’islamismo integralista.
Interpretare in chiave interna l’antiebraismo connettendolo a un presunto eccesso di memoria inflitta al mondo comporta il rischio di non cogliere il rifiuto ideologico e l’isolamento sociale dell’altro che lo caratterizzano, percependo invece solo un generico “fastidio” verso gli ebrei e ciò che è ebraico. Così facendo, però, si sminuisce e si sottovaluta l’impatto nefasto della tendenza antisemita, con conseguenze inevitabili: se non si articola una lettura sociologica del fenomeno non si riesce davvero ad affrontarlo. Al limite, l’idea che questo sentimento emergente sia solo una diffusa (e forse persino comprensibile) “antipatia” potrebbe portare alcuni a giustificarlo almeno parzialmente, altri addirittura a condividerlo.
Last but not least, ciò che è forse la base di ogni considerazione, e il cui fraintendimento finisce per rendere impossibile una corretta analisi: l’antisemitismo non ha origine negli ebrei e nella loro esistenza, la sua matrice e il suo carattere non vanno ricercati nell’ebraismo o nella storia ebraica; risiedono invece in uno stato patologico della società non ebraica. Lì è la malattia, lì va praticata la cura.
David Sorani