Il futuro della Memoria
“Non tira una grande aria per il 27 gennaio”, scriveva solo pochi giorni fa David Bidussa in un articolo sull’Espresso; la morte di Piero Terracina, accompagnato dall’affetto della comunità ebraica di Roma e di tutto l’ebraismo italiano, rende più che mai attuale la necessità di meditare su una data che, approssimandosi ormai la nuova epoca in cui non ci saranno più testimoni, ci costringe a elaborare nuovi progetti e nuove idee per salvaguardare la Memoria.
Ancora una volta, sono gli ultimi testimoni a imporci la consapevolezza del passaggio che stiamo per vivere. “Con Piero Terracina ci legava una fratellanza silenziosa, tra noi non servivano parole. E ora che non c’è più mi sento ancora più sola” ha dichiarato Liliana Segre. “Gli avevo promesso che sarei andato avanti nel tenere viva la Memoria e così farò finché potrò”, ha detto Sami Modiano. A noi, che arriviamo dopo, spetta il compito di raccogliere il testimone di questi eroi del Novecento.
È necessaria un’adeguata riflessione, dunque. Bidussa avverte che non c’è alcuna smemoratezza nel linguaggio e nei gesti di chi irride ciò che rappresenta il Giorno della Memoria. Al contrario, è ormai diffuso un movimento culturale e politico che tradisce l’insofferenza innanzitutto verso un’idea di Europa, l’idea che si è costruita per mezzo secolo, per cui la seconda guerra mondiale e la Shoah sarebbero stati per sempre il monito a costruire un continente unito, in cui sarebbe stato bandito ogni nazionalismo predone.
Oggi, è evidente, questo progetto di ricostruzione dell’Europa su principi universali – innanzitutto quelli della Dichiarazione universale dei diritti umani, ma anche quelli dalla nostra Costituzione – è in profonda crisi. Occorrerà continuare a spiegare a chi non sa o non vuole intendere che, come ha scritto di recente rav Roberto Della Rocca sul Corriere, il 27 Gennaio non è “una celebrazione mistica del popolo ebraico come vittima della Shoah”, immagine spesso usata “per sostenere quelle tesi negazioniste e antisemite, e, in alcuni casi, contrarie alla legittimità dello Stato d’Israele”, ma che a noi ebrei spetta un ruolo di “resilienza culturale e identitaria”.
Per questo occorre immaginare, progettare e realizzare luoghi di elaborazione e diffusione culturale da opporre all’indifferenza e al negazionismo. Pochi giorni prima che Piero Terracina ci lasciasse abbiamo letto che il Museo della Shoah, progettato a Roma da oltre quindici anni, potrebbe cominciare a nascere la prossima primavera, con l’apertura del cantiere a villa Torlonia. Sarebbe importante, e al tempo stesso un impegno per tutto l’ebraismo italiano. Il museo, al pari di quello dell’ebraismo italiano di Ferrara, si candiderebbe a essere un luogo di cultura, testimonianza e progettazione di quell’idea di Europa comune di cui oggi c’è così grande bisogno, e di cui gli ebrei, da sempre, sono sostenitori. Riuscire ad avviare i lavori, e a concluderli in tempo per consentire ai nostri ultimi testimoni di inaugurarlo, sarebbe il modo migliore per onorare la loro generosità e non tradire la fiducia che in questi decenni hanno mostrato verso le generazioni successive, continuando a raccontare quello che è stato.
Massimiliano Boni
(11 dicembre 2019)