L’esempio di Giacobbe
Rav Jonathan Sacks, già Rabbino Capo di Gran Bretagna, in un denso articolo, che in questo contesto posso solo in parte riportare, partendo da una sintetica analisi comparativa dei tre Patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe, definisce alcune caratteristiche fondamentali dell’identità ebraica. Le figure dei tre padri del popolo ebraico sono analizzate da Rav Sacks in modo particolare dal punto di vista della centralità che ha rivestito nella loro vita l’esperienza del mettersi in cammino: così è stato per Abramo, per il quale i due momenti più importanti della vita sono introdotti dalla stessa espressione “Lekh lekhà – va!”; la prima volta questa sollecitazione si riferiva al distacco dal passato – il viaggio verso l’ignoto significava infatti per Abramo l’abbandono della casa e della famiglia paterna – la seconda volta, la richiesta del Signore, che mette alla prova il patriarca chiedendogli di volgersi verso il monte dove avrebbe dovuto offrire in sacrifico il figlio Isacco, rappresentava per Abramo la possibile rinuncia ad ogni aspettativa di futuro. Per il patriarca Isacco riscontriamo che l’esperienza del viaggio fu ridotta e sempre limitata all’ambito della terra di Canaan mentre torna ad essere centrale e dominante per il patriarca Giacobbe, di cui la Torah ci narra prima il percorso da Canaan a Charan, poi il ritorno e in seguito, molti anni dopo, la discesa in Egitto. In quanto padri del popolo ebraico questi tre personaggi rappresentano emblematicamente la centralità che ha per il popolo ebraico l’esperienza del mettersi in cammino, sia in senso concreto che figurato, inteso come condizione dinamica di orientamento e scelte di vita fra obiettivi e valori tra loro anche molto diversi ma che devono anche trovare un certo equilibrio. A questo proposito Rav Sacks afferma fra l’altro: “L’ebraismo vive la fede come un “viaggio”. Essere ebreo significa non sentirsi mai del tutto “a casa”, essere ebreo significa vivere nella tensione tra cielo e terra, tra creazione e rivelazione, tra il mondo così com’è e quello che siamo chiamati a creare, tra diaspora e la propria casa, tra l’universalismo – in quanto esseri umani – e il particolarismo della nostra identità ebraica. L’ebreo non è mai fermo e immobile se non quando si trova al cospetto di D.O. Siamo pienamente partecipi di quella condizione di movimento e instabilità che caratterizza ogni elemento del creato” . Riferendosi poi ancora a Giacobbe, Rav Sacks coglie la particolarità del testo che introduce i due episodi nei quali il patriarca vive i momenti più sublimi della sua esperienza spirituale, con la visione degli angeli, che salgono e discendono lungo la scala distesa tra cielo e terra, che gli appare nel sogno, quando parte da Canaan (Genesi 28,10) e la schiera degli angeli che gli vengono incontro quando vi fa ritorno (Genesi 32,2); queste due visioni sono introdotte da un’espressione del verbo “paga’” che allude ad un incontro del tutto imprevisto, cui Giacobbe non era preparato. In entrambe le situazioni Giacobbe vive le ansie molto terrene e concrete, legate a ciò che lascia e a ciò cui va incontro, è colto quindi di sorpresa da queste rivelazione divine ma riesce pienamente, proprio partendo da una condizione di solitudine e di problematiche personali, ad emergere e a sollevarsi verso una nuova dimensione di spiritualità e verso più alti orizzonti. È proprio in questa esperienza, che Giacobbe è pienamente padre del popolo ebraico, perché ci insegna ad essere capaci di lasciarci sorprendere dal richiamo divino e ad essere in grado di accoglierlo e di interpretarlo nel viaggio complesso della vita di ciascuno di noi.
Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova