Periscopio – Testimoni
Ho avuto il grande privilegio e onore di conoscere piuttosto bene di persona Piero Terracina, del quale ricordo soprattutto, in questo momento – al di là dello straordinario valore di testimonianza -, le grandissime doti di calore umano, simpatia, comunicativa. In alcune cene conviviali, a Roma, una ventina di anni fa, riusciva a rallegrare tutta la comitiva con un sorriso ironico, una spiccata verve romanesca, un’innata attitudine allo scherzo, alla celia, un costante buonumore. L’ho poi incontrato un’ultima volta, una decina di anni fa, presso la mia Università di Salerno, dove ci ha fatto il grande onore di venire a incontrare delle scolaresche delle scuole medie e dei licei. Appariva ormai piegato dagli anni, e, quando una giovane adolescente volle dare pubblica lettura di una poesia a lui dedicata, mi sembrò – lui era seduto sul palco, io in platea – che il suo sguardo si inumidisse di una lacrima. Ma quando lo abbracciai, nel salutarci, mi regalò il sorriso di sempre, che non dimenticherò.
Ho avuto anche l’occasione, come ho già raccontato, di dialogare – una sola volta, una ventina di minuti, quattro mesi prima che morisse – con Primo Levi, di cui pure serbo un ricordo vivissimo: estremamente cordiale, gentile, curioso (non parlammo della sua vita o dei suoi libri, ma dei miei studi, in particolare della Guerra Giudaica di Flavio Giuseppe, che mostrò di conoscere molto bene), mi colpì per un tratto umano improntato a un certo distacco, con una punta di signorile freddezza torinese. Un rigore da scienziato, da analista, di chi abbia scelto di farsi guidare, più che dai moti del cuore, dalla razionalità della mente. Lo stesso tratto che mi è sembrato di scorgere nelle sue pagine – le ho lette tutte, alcune molte volte – e nei suoi interventi televisivi.
Non ho avuto ancora, invece, l’opportunità di incontrare di persona Liliana Segre, di seguo però con alto interesse e infinita ammirazione gli interventi pubblici. Il sui libro Scolpitelo nel vostro cuore (edizioni PIEMME), rivolto a un pubblico di ragazzi, rappresenta una straordinaria lezione di coraggio, di forza d’animo, di fiducia e amore – nonostante tutto – nella vita. Un libro che tutti, piccoli e grandi, dovrebbero leggere. A colpirmi e a turbarmi nel profondo – fino a farmi provare un vero e proprio dolore fisico – non sono state tanto le atroci rievocazioni dell’inferno concentrazionario, ma il racconto di quando, bambina, espulsa dalla sua scuola media per la “colpa di essere nata”, e trasferitasi in un istituto privato, si trovò a dover passare, ogni mattina, per raggiungere il nuovo edificio, acanto a quello vecchio, incontrando così, fuori dell’ingresso, le ex compagne di classe. Quelle bambine, con cui, fino a qualche giorno prima, scherzava spensierata e felice, ora la evitavano, la segnavano a dito, sussurrando sottovoce: “è ebrea”. Nessuna di loro, ricorda Liliana, sapeva cosa volesse dire “essere ebreo”, e neanche lei stessa.
Non è strano che questo piccolo, crudo episodio mi abbia ferito più dei racconti spaventosi di quanto vissuto ad Auschwitz. Quel mondo mostruoso, per chi non ci sia stato, è qualcosa di lontanissimo, di impossibile da immaginare, come un incubo sognato da altri, in un’altra galassia, milioni di anni fa. Quel dito puntato, invece, lo abbiamo visto tutti, tante volte: ho rivissuto, per esempio, il violento e crudele scherno di cui veniva fatto oggetto (“guardalo, guardalo, sta là!”), nella mia scuola elementare di Napoli, nei primi anni ’60, un bambino nano, senza che nessuno – tra compagni, insegnanti, bidelli – intervenisse a sua difesa. Leggendo il libro della Senatrice, mi sono sentito sprofondare di vergogna per essere stato anch’io partecipe di questa terribile indifferenza. Ero solo un bambino, ma avrei potuto fare qualcosa. Avrebbero preso in giro anche me, probabilmente, sarei stato bollato come “l’amichetto del nano”, avrei fatto la figura del “molle”, ma ora avrei un ricordo di cui essere orgoglioso.
Credo che le diverse lezioni di vita di Terracini, Segre, Levi – di quelli che ce l’hanno fatta a resistere, come i primi due, e di coloro, come il terzo, per i quali la corda, a un certo punto, si è spezzata – rappresentino davvero uno scrigno prezioso, un’autentica riserva aurea per la nostra storia, la nostra coscienza, la nostra dignità. Sono il nostro faro, la nostra bussola, la nostra stella polare. Se il nostro Paese sarà salvato, sarà grazie a loro. Innanzi alle loro parole, per favore, restiamo in rispettoso silenzio, ascoltiamo quello che hanno da dirci, evitando di tirarli per la giacchetta, di strumentalizzarli, di spingerli a destra o a sinistra, di suggerire loro – cosa che vedo fare spesso, e che mi pare quanto mai squallida – le cose che dovrebbero dire, le posizioni politiche che dovrebbero sostenere. Meditare sulle loro esperienze, trasmetterne la Memoria, ammirarli e ringraziarli. Nient’altro, per favore.
Francesco Lucrezi, storico