Exit in exitu
Certo, Israele non è il Regno Unito. Corre rischi diversi. Per Londra il problema sarà la tenuta interna delle quattro nazioni storiche che compongono il Paese, a partire dalla Scozia, che si sta armando nello spirito e nel corpo per fare il suo «leave». Così come la vicenda dell’Ulster rischia di riaprirsi, e a breve. Per Gerusalemme, invece, i pericoli sono ben altri e provengono da oltreconfine. Non per questo lo stallo politico israeliano è stato risolto. Come i lettori oramai ben sapranno, si tornerà ad un terzo passaggio elettorale, quello del 2 marzo 2020. Tre elezioni politiche in un anno sono francamente molte, se non troppe. Poiché segnano l’evidente inerzialità del sistema politico, laddove esso è incapace di trovare in sé risorse e strumenti per dare risposte durature alle aspettative degli elettori. L’incapacità di arrivare a formare una coalizione, al netto delle singole ragioni peculiari di sistema che sembrano originarla, si inscrive in queste dinamiche di medio e lungo periodo. La politica, e in immediato riflesso i politici, oggi, contano meno che nel passato. In altre parole, sono meno decisivi nella soluzione dei conflitti d’interesse, l’arena che gli apparterrebbe di principio. La loro sopravvenuta aggressività, giocata sempre più spesso su temi identitari (qualcosa del tipo: “rompiamo ciò che già c’è per uscire dalla gabbia nella quale molti cittadini si sentono imprigionati”) è il segno di una condizione di ripiegamento che loro per primi stanno vivendo. Fermo restando, poi, che buona parte delle tensioni che si misurano adesso in Israele rimandano al destino politico (e non solo a quello) di Benjamin Netanyahu. Poiché una terza campagna elettorale, che si preannuncia da subito molto tesa in quanto giocata sui valori di fondo, a partire dall’identità liberale e democratica delle istituzioni del Paese, ruoterà intorno alla figura, per molti sempre più ingombrante, per altri invece imprescindibile, del Premier uscente. Verrebbe da dire, allora, che per sparigliare le carte Bibi dovrebbe giocare come BoJo. Con però una specifica chiosa, ossia che Boris Johnson ha vinto anche perché ha legato la sua immagine, al limite del pirotecnico, alla frantumazione del tradizionale organigramma del suo partito, i Tories. Si è infatti presentato come un “oltre”, potendo calare l’asso della Brexit – per meglio dire del «Get Brexit Done», della sua conclusione – in una vicenda, invece, che da tempo sta esasperando l’intero Regno Unito e che ha oramai assunto i connotati della tela di Penelope. Ai cui fili Londra rischia altrimenti di rimanere impiccata. La frattura con il Tory, non a caso, si è giocata su questo piano: “datemi i voti, chiuderò questa partita eterna”. Netanyahu, invece, non ha nessuna Exit da fare se non la sua. Non può disarticolare il Likud, anche dinanzi all’opposizione interna che cresce, con Gideon Sa’ar, o alla figura alternativa di Yuli-Yoel Edelstein, attuale speaker della Knesset, che si è tessuto addosso un abito istituzionale. Altri esponenti del Likud, in altre epoche, ancorché a noi malgrado tutto prossime, uscirono dal partito e se ne fecero uno a propria immagine e somiglianza. Così con Ariel Sharon, in sostanza un libero battitore della politica israeliana, che nel tardo autunno del 2005 fondò Kadima, giocando anche sulla crisi parallela del Labour israeliano; oppure, di Tzipi Livni, già fervente likudnik, la «migliore prima ministra che Israele non ha avuto». Ma in quel caso c’erà un One Big Issue sul quale fare ruotare il sistema politico israeliano, ovvero la negoziazione con i palestinesi per arrivare ad una Exit/Closure più o meno definitiva. Netanyahu non ha nulla di ciò da mettere sul tavolo e la politica dello «status quo», così com’è stato definito lo stallo attivo rispetto alla Giudea e alla Samaria (aumento degli insediamenti, omessa definizione del Final Status di quei territori) ora gioca contro di lui. Poiché è visto come una figura inerziale, che non opera più d’anticipo ma solo di conservazione, radicalizzando cumulativamente i problemi che si inscrivono nel rapporto tra presenza ebraica, sovranità territoriale e diritto internazionale. Al netto, sia detto per inciso, dei singoli giudizi di valore sulla sua persona, come sulle vicende giudiziarie che lo accompagnano come un’ombra oramai permanente. Quanto alla elezioni britanniche, qualche dato, per la delizia di chi voglia esercitarsi con la cabala dei numeri, grazie ai computi degli “alchimisti” dei sistemi elettorali, dai quali recupero i dati. Primo aspetto: la partecipazione al voto è rimasta pressoché inalterata: nel 2017 si ebbero complessivamente 32.196.918 voti validi; nel 2019 si registra un minimo decremento, che ha portato il totale dei suffragi regolarmente espressi a fermarsi a 31.930.307. Secondo aspetto: non hanno vinto i conservatori ma hanno perso i laburisti. L’incremento dei Tories, infatti, sul piano complessivo è stato minimo: da 13.662.914 voti del 2017, il partito di Boris Johnson è passato a 13.945.200. Lo scarto positivo è stato quindi di 282.286 suffragi. Il Labour è sceso da 12.874.985 voti a 10.292.054, con un arretramento di 2.582.931 suffragi e la perdita di una sessantina di seggi. Di questi voti in uscita, se ne sono avvantaggiati i liberaldemocratici (un guadagno di 1.303.577 assensi). Ma, ed è il terzo aspetto, il sistema elettorale britannico – rigorosamente bipartitico – li ha ingenerosamente puniti, traducendoli in un decremento di seggi, che sono passati ad undici. Per comprendere il perché di questo stato di cose bisogna infatto ragionare sull’«indice di distorsione» e su quello di disseminazione territoriale delle preferenze, che stabiliscono il rapporto tra voti effettivi e concreta ripartizione di essi nell’elezione dei singoli candidati (ovvero, nella ripartizione dei seggi alla Camera bassa) secondo il sistema elettorale vigente nel Regno Unito. Il quale è basato sul criterio «first-past-the-post», un sistema uninominale secco, in cui in ogni collegio (detto «costituency») viene proclamato eletto il candidato che ottiene la maggioranza relativa dei voti (la cosiddetta «plurality») rispetto agli altri candidati, senza che debba passare il vaglio di una soglia minima. La parte restante dei voti va praticamente al macero, non essendo computata in collegi nazionali di recupero o con sistemi di ripescaggio. Il matra è sempre e solo uno: garantire la governabilità in un sistema bipolare, anche a scapito dell’effettiva rappresentatività. Vince chi raccoglie più voti in un seggio. Il resto sparisce. Ne è derivato che se i conservatori si garantiscono la maggioranza assoluta con circa tredici milioni di voti, i loro oppositori, ancorché tra di loro molto differenti, ne collezionano diciotto milioni. In buona sostanza, si tratta di «una maggioranza assoluta attribuita a una minoranza relativa» (Franco Astengo). La distorsione prodotta dalla formula elettorale ha quindi colpito particolarmente i liberaldemocratici, che non sono riusciti a capitalizzare l’esodo dai laburisti: per eleggere ogni loro deputato, infatti, sono occorsi 334.122 voti, quasi dieci volte quanto necessitante ad un deputato conservatore. Al contrario il Partito unionista nord-irlandese è salito da otto a dieci deputati ottenendo solo 292.316 voti (29.231 a seggio), mentre i Verdi hanno ottenuto il loro unico collegio (Brighton Pavillon) pur avendo realizzato un totale di 864.743 voti, con una ragguardevole crescita di 339.372 unità. Il partito di Farage, il Brexit Party-UKIP, che aveva già annunciato l’astensione dalle candidature nei collegi vinti dai conservatori nelle elezioni del 2017, in una sorta di accordo di desistenza generalizzata e preventiva, è stato attento a questa logica, evitando di fare così la parte del terzo incomodo, quello che avrebbe potuto fare perdere voti ai Tories, aiutando indirettamente i laburisti. Ha quindi totalizzato 642.303 voti, rimanendo escluso dalla Camera dei Comuni. Nei collegi “omogenei”, dove si sapeva che avrebbe vinto una lista, all’effettiva perdita di voti non è corrisposta una perdita di seggi. Ad esempio, nell’Ulster il Sinn Féin, infatti, ha “smarrito” 57.332 voti (su 238.915) mantenendo tuttavia i suoi sette seggi, che adesso valgono ciascuno 25.940 voti. Da segnalare anche il risultato del Partito socialdemocratico e laburista nord-irlandese, che ha avuto due seggi con 118.737 voti mentre nel 2017 con 95.419 complessivi non aveva vinto in alcun collegio. La mappa elettorale del Regno Unito è quindi così composta: conservatori al 43,6%, dato “spalmato” a livello nazionale, con 365 seggi (un incremento di 47 scranni rispetto alle elezioni politiche del 2019); laburisti al 32,2%, con 203 seggi (un decremento secco di 59 deputati); i liberaldemocratici, benché all’11,5%, ora contano solo 11 deputati; lo Scottish National Party al 3,9% fa 48 deputati (ottenendo il pieno ovviamente in Scozia, con un incremento di tredici seggi); il Dup, Partito unionista nordirlandese, protestante e di destra, prende l’0,8% ma si assicura ancora otto seggi (perdendone tuttavia due); il Sinn Féin, indipendentista irlandese, con lo 0,7% mantiene i suoi sette seggi; il Plaid Cymru, formazione politica gallese, di centrosinistra, a favore di un Galles indipendente dentro l’Unione Europea, con lo 0,5% mantiene i suoi quattro deputati; lo Sdlp, il Partito socialdemocratico e laburista, d’ispirazione nazionalista, nordirlandese, con lo 0,4% si garantisce due seggi; l’Alliance, liberali dell’Ulster, con lo 04% hanno un seggio e i verdi, con il 2,7%, solo uno. La cartina elettorale del Regno Unito consegna i grandi territori del centro-sud isolano ai Tories, con alcune aree, perlopiù urbane (Londra, Canterbury, Bristol, Cardiff, Swansea, Oxford, Birmingham, Newcastle, Blackpool ed altre), suddivise tra laburisti e liberaldemocratici. La Scozia è per buona parte in mano agli indipendentisti, mentre al suo nord vincono i liberaldemocratici e ad est i conservatori. Gli indipendentisti gallesi sono ovviamente presenti nel Galles e i partiti irlandesi nelle sei contee che costituiscono l’Ulster, provincia storica dell’isola (che si estende nell’Irlanda indipendente).
Claudio Vercelli
(15 dicembre 2019)