Ticketless – Rileggendo pdb
In questi giorni ho avuto l’opportunità (e la gioia) di rileggere pagine di Paolo Debenedetti, il professor Diotallevi nella raffigurazione non caricaturale che nel Pendolo di Foucault ne diede Umberto Eco. Per molti, semplicemente, pdb. Sono uscite sue raccolte di poesie sui gatti (“gattilene”), filastrocche sugli animali nella Bibbia, manca tuttavia una bibliografia completa che dia conto della vastità di una produzione mai occasionale. Mi sono soffermato su due suoi scritti. La miniantologia del 1988 affidata al catalogo di una mostra ferrarese dedicata ai beni culturali: una apoteosi dell’ebraismo “di provincia”, nella quale subito mi riconobbi: “I nostri avi non viaggiarono da Minsk a New York, ma da Vercelli ad Asti”. Fu quel suo elogio della petite patrie l’occasione del mio primo incontro con lui. Venne poi il saggio sull’Imré Lev, le “Preghiere d’un cuore israelita”, a cura di Marco Tedeschi. Quel libro fu un vero best seller, alla maniera di Eco potremmo dire. Il saggio di pdb fa luce sul microcosmo privinciale dei suoi (e dei miei) avi, ma soprattutto risponde ai quesiti dello storico. L’Imré Lev, scrive, contiene tracce di haskalah, influenze dell’umanitarismo cristiano, suggestioni della scienza della scienza del giudaismo e “propensione per quell’eclettismo orientaleggiante che, auspici le varie Esposizioni Universali, ispirerà le facciate delle sinagoghe, in gara con le coeve stazioni ferroviarie”. Pdb non parla soltanto per se stesso, ma ci aiuta a fare chiarezza sulla vera natura dell’ebraismo italiano dell’800. Sempre in quel saggio Pdb si sofferma sulle traduzioni in italiano avviate dallo stesso Marco Tedeschi, altro gran tema ottocentesco. Chi non rimane sorpreso dalle strabilianti versioni di “Eshet Chajil” nel metro decasillabo del tipo “S’ode a destra uno squillo di tromba” o il famoso canto “Adon Olam” nel metro della canzone petrarchesca? Il professor Diotallevi ci ha lasciato da qualche anno, lo ricordiamo commossi in questa rubrica che deve il suo nome ai viaggi in treno e alle permanenze più o meno forzate, ma sempre meditative, nelle odierne sinagoghe-stazioni. Quante cose, durante queste soste, vorremmo “chiamare”! Attenzione, però. Non è un anacoluto l’uso del verbo “chiamare” in luogo di “domandare”. Nel saggio sull’Imré Lev pdb cita una lettera di Tedeschi a Shadal dove si discute sulla traduzione del verbo “qarati”. Non nel vero senso di chiamai (vocavi), ma nel senso del “chiamai” piemontese, che vale “domandai”. Un curioso esempio, chiosa pdb, di come allora anche le persone colte pensassero in piemontese.
Alberto Cavaglion